«Visto che è un governo Dc alla guida del partito ci deve essere un sinistro». Mentre passeggia per i corridoi di Montecitorio, Dario Franceschini, neo Ministro per i Rapporti con il Parlamento, ripete ad oltranza questa frase. Dicono ci sia «un po’ di sarcasmo» nelle parole dell’ex capogruppo alla Camera dei democratici. «Un po’ di sarcasmo» frutto del risultato ottenuto. Del resto “Dario” «è l’unico delle vecchia guardia che oggi è ministro. Gli altri non abbiamo toccato palla», spiega un ex diessino che preferisce non rivelare l’identità.
Ma ormai la questione «governo» è stata archiviata. Al netto di Pippo Civati e Davide Mattiello, che non hanno preso parte al voto, il gruppo parlamentare del Pd ha votato compatto la fiducia al governo presieduto da Enrico Letta. «Adesso concentriamoci sulle cose che stanno avvenendo» sbotta Guglielmo Epifani dai microfoni del telegiornale de La7. Un modo come un altro per dire: non pensiamo al partito, pensiamo alla nascita del governo e ai problemi del Paese. In realtà, nonostante i buoni intenti del governo, gli attestati di stima al team di “Enrico”, «l’ottimo» discorso in Aula, «nessuno crede fino in fondo a questo governo» spiega un parlamentare. «Ci sono troppi interrogativi».
Il primo che attanaglia le svariate anime del Partito democratico è quello della scelta dei sottosegretari e dei viceministri. Il Capo dello Stato, stando quanto raccontano a Linkiesta «vuole un numero ristretto di sottosegretari nei limiti delle funzionalità». Ma all’interno del partito si discute del numero, della ripartizione e del metodo. E la discussione potrebbe protrarsi per tutto il weekend. Le aree di Fioroni, Veltroni e Bindi, sono rimaste a bocca asciutta. E starebbero facendo pressioni per una fetta importante di sottosegretari. «Una trentina di sottosegretaria finiranno a noi» sussurrano svariati democrat. Del resto, come raccontano a Linkiesta, «l’attivismo di queste ore di Sandro Gozi sarebbe proprio legato ad un posto di sottosegretario». E la stessa cosa si potrebbe dire per Sandra Zampa che ancora si domanda («se l’è legata al dito» dicono) chi siano stati i 101 franchi tiratori della mancata elezione al Colle del padre nobile Romano Prodi.
Poi c’è l’incognita legata al metodo. Si ragiona su chi scegliere: uomini di partito ma con esperienza di governo o giovani parlamentari specializzati in alcuni settori? Al Nazareno, la sede del Partito democratico, vorrebbero puntare sull’esperienza e magari riesumare alcuni pezzi da novanta della nomenclatura scartati all’ultimo istante. Si fanno diversi nomi, da Marco Minniti, già Ministro dell’Interno, a Nicola La Torre, passando per Paolo Gentiloni e Beppe Fioroni. Nomi «autorevoli e spendibili» ma che difficilmente verrebbero digeriti dal centrodestra. Del resto l’ultima parola spetterà ad Enrico Letta, il quale concerterà le scelte con il centrodestra e con Silvio Berlusconi. Proprio a causa della scelta dei sottosegretari è stata rinviata l’assemblea nazionale del Pd, che in primo momento sarebbe stata fissata per il prossimo 4 maggio. «Facciamo passare il ponte del Primo maggio, poi ci dedichiamo all’assemblea del partito».
In realtà l’assemblea nazionale sarebbe stata rinviata a sabato 11 maggio anche perché non si riesce a trovare la sintesi sul cosiddetto “reggente”, il traghettatore che condurrà il partito al congresso. Con gli ex Ds, ai quale spetta «di diritto» la reggenza, che vorrebbero indicare Guglielmo Epifani, segretario nazionale della Cgil, o Stefano Fassina. Il primo avrebbe già smentito: «Non sono interessato a posti di reggenza…». Mentre il secondo dalle colonne del Corriere c’ha girato intorno: «Voglio concentrarmi sulla ricostruzione morale ed intellettuale del Pd. Per me è questo la priorità». In Transatlantico raccontano di un Fassina “deluso” per non essere stato scelto come ministro, e che oggi vedrebbe di buon occhio «un incarico di partito». Insomma tutto è ancora possibile. I renziani, che accetterebbero anche un ex Ds alla guida del partito, avrebbero posto alcuni paletti: «Non esiste che siano Fassina o Epifani a traghettare il Pd al Congresso. Ci propongano altri nomi». E il nome al quale guarderebbero è quello di Sergio Chiamparino, «uno che conosce la nomenclatura, e sul quale non potrebbero dire “no” gli ex Ds». Si discute. E non è da escludere che alla fine le varie anime cambino strategia, e puntino su una soluzione collegiale che rappresenti le diverse correnti. Una soluzione che non scontenterebbe nessuno, e renderebbe più agevole il clima in vista del congresso. Oppure, come dice da ex democristiana Rosi Bindi, «prima del congresso si dovrebbe individuare una persona più un comitato che rappresenti tutte le anime». D’altronde, per dirla con Paolo Gentiloni «starei solo attento ad evitare un ragionamento tipo: il mondo ex ds gestisce il partito, gli ex margherita gestiscono il governo. Sarebbe una riedizione del rapporto che il Pds ebbe con Prodi: noi però abbiamo fatto un partito unitario».
Ma non è finita. All’interno del Pd si sarebbe aperto un “caso Renzi”. Il sindaco di Firenze non avrebbe digerito un passaggio del discorso di Enrico Letta, quando l’attuale Presidente del Consiglio scandisce queste parole: «Tra diciotto mesi verificherò se il progetto sarà avviato verso un porto sicuro». Diciotto mesi sono tanti per “Matteo” e rinvierebbero a data da destinarsi la sua candidatura alla leadership del centrosinistra. «Sono troppi, così sarò costretto a ricandidarmi sindaco di Firenze» avrebbe confidato ad alcuni fedelissimi. Ecco perché ad oggi le strade di “Matteo” appaiono due: o sostituire Graziano Del Rio come Presidente dell’Anci, l’associazione dei comuni, oppure candidarsi alla segretaria del Pd. Del resto, assicurano a Linkiesta, «Matteo l’ha capito che Enrico dopo vorrà giocarsi le carte, e candidarsi come Presidente del Consiglio». A meno che, come assicurano a Linkiesta, «qualcuno non stacchi la spina» al governo del democristiano Enrico Letta. E a taccuini chiusi nel Pd sono già diversi pronti a dire: «Prima dell’estate faremo le opportune verifiche. Altro che 18 mesi».