Questa è una lunga settimana. Una settimana che porterà all’elezione del nuovo Presidente della Repubblica. Ma che potrebbe anche portare all’esplosione del Partito democratico. È Enrico Letta a esternare dai microfoni del Tg3 lo stato salute del partito del Pd: «Non possiamo rischiare una spaccatura del partito in questo momento. Dobbiamo concentrarci oggi sull’unire, unire, unire. Io sono preoccupato perché i toni si sono alzati». Una dichiarazione che fa il giro delle stanze di Montecitorio, e arriva dritta dritta alla buvette, dove un vecchio dirigente della Margherita la commenta così: «Se Enrico parla così, il Pd ha le ore contate».
E a nulla importa se l’incontro tra il leader del centrosinistra Pier Luigi Bersani e Mario Monti per l’elezione del prossimo inquilino del Quirinale, che si è svolto ieri a Palazzo Chigi, è andato «molto bene». E se entrambi, come si legge in una nota diffusa da Palazzo Chigi, «hanno convenuto, in vista delle votazioni in Parlamento per l’elezione del Presidente della Repubblica, di ricercare la massima convergenza possibile tra le forze politiche per la scelta di un candidato autorevole che possa rappresentare l’unità nazionale, come indicato dalla Costituzione». Una convergenza che lascia intendere che i nomi sul tavolo sono appunto Giuliano Amato, Sergio Mattarella, che prende sempre più quota in queste ore, Massimo D’Alema, e per finire il sempre eterno Mario Monti.
Non importa perché «nella ditta è un tutti contro tutti», e perché «Pier Luigi ha rovinato il lavoro svolto da D’Alema». Le parole di sabato al Corviale, “indecente”, “arrogante”, non sono piaciute a chi come Massimo D’Alema sta svolgendo un ruolo di mediazione sotto traccia. Il «pontiere», il lìder Massimo era andato fino a Firenze «per stemperare i toni, per abbassare il livello dello scontro», per far sì che la «ditta potesse ancora esistere». A nulla è valso il lavoro dell’ex Presidente del Consiglio, ragionano un drappello di ex diessini in Transatlantico. In fondo, «Matteo ha semplicemente indicato Prodi, ed espresso un parere negativo su Marini e Finocchiaro». Del resto anche una lettiana di ferro come Paola De Micheli, vicepresidente vicario del Pd alla Camera, dice che da un lato «è giusto che Renzi, al pari di qualsiasi altro dirigente del Pd, esprima le sue preferenze sui requisiti del futuro inquilino del Quirinale», mentre dall’altro «trovo tuttavia inopportuno che si interferisca su singoli ipotetici candidati».
A ogni modo un linguaggio “light” più congeniale all’attuale fase di impasse istituzionale, che risulta distante dai toni di Anna Finocchiaro: «Trovo che l’attacco di cui mi ha gratificato Matteo Renzi sia davvero miserabile». Un linguaggio che «non si ricorda nella vituperata Prima Repubblica», sbotta Bobo Craxi. Un linguaggio, sottolinea un democratico di provenienza comunista, «che non sarebbe stato accettato a Botteghe Oscure, dove se la davano di santa ragione, ma tutto rimaneva all’interno».
Ecco perché a Largo del Nazareno fanno il conto alla rovescia. La deadline del Pd potrebbe essere segnata dall’elezione del Presidente della Repubblica. Il futuro del partito è appeso a ciò che succederà da giovedì. Beppe Fioroni, leader degli ex popolari, e molto critico nei confronti del sindaco di Firenze, teme «una guerra fra bande» qualora il nuovo Capo dello Stato non venisse eletto entro la terza votazione. Mentre l’ex democristiano Marco Follini, ormai lontano dai Palazzi, mette in guardia: «Io da un osservatorio molto distaccato osservo che sono scontri con un potenziale distruttivo».
Un’implosione che potrebbe verificarsi qualunque sia lo scenario. Perché, sussurra un ex popolare alla buvette, «se si dovesse eleggere un presidente alla Giuliano Amato, Matteo Renzi potrebbe lasciare il Pd e fondare un altro partito. Se invece venisse eletto Romano Prodi, percepito da Berlusconi come candidato di rottura, entro l’anno si tornerà a votare, e lo stato maggiore del Pd non accetterebbe la leadership di Renzi». Del resto non è un caso che i renziani continuino a endorsare l’ex Presidente del Consiglio Romano Prodi. L’ultimo in ordine di tempo è proprio il fedelissimo del sindaco di Firenze Matteo Richetti che, intervenuto alla Zanzara, spiega perché: «Tra quelli che circolano, è il nome di Romano Prodi quello con più autorevolezza, credibilità e rapporti internazionali. È il nome più autorevole tra quelli in campo».
Del resto il nome di Romano Prodi è quello «che scompagina il gioco di Bersani», svela un democrat nei corridoi di Montecitorio. E oltretutto, «se conosco bene Romano non darà mai un incarico pieno a Pier Luigi».
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