Non c’è alcuna regia politica e ideologica né progetto terroristico all’origine del gesto criminale e tragico compiuto oggi da Luigi Preiti di fronte a Palazzo Chigi. Né emergono legami con le strategie sanguinarie promosse dalle grandi e feroci organizzazioni malavitose fra cui la ‘ndrangheta. E al momento viene esclusa ogni patologia psichiatrica tale da armare la mano del muratore di 49 anni nato a Rosarno.
La spiegazione più plausibile e persuasiva per inquirenti e investigatori affonda nella realtà sociale del nostro tempo, e si può leggere nelle parole pronunciate dall’uomo nel corso del suo primo interrogatorio da parte dei magistrati della Procura capitolina impegnati nelle indagini: il procuratore aggiunto Pierfilippo Laviani e il pm Antonella Nespola. Ricoverato all’ospedale San Giovanni per una contusione alla testa provocata dalla colluttazione con gli uomini delle forze dell’ordine nei drammatici istanti successivi alla sparatoria, e piantonato costantemente nello stato di fermo convalidato dal gip, Preiti ha riconosciuto e ammesso le proprie responsabilità motivandole con poche frasi eloquenti. «Sono un uomo disperato. Non odio nessuno. Volevo colpire loro, i politici, ma so che non ce l’avrei mai fatta».
Disperazione dunque, in cui era precipitato un lavoratore edile e piastrellista calabrese emigrato in Piemonte negli anni Novanta ma rimasto privo di occupazione a causa della crisi che da anni travolge il tessuto produttivo del nostro paese. Uno stato d’animo aggravato dal fallimento del suo matrimonio, dalla separazione con la moglie e dall’impossibilità di curare la crescita del figlio. Rottura che, forse, era stata accelerata dalla sua ossessione per il gioco e i video-poker, in cui l’uomo avrebbe dissipato denaro e patrimonio.
Ridotto nella condizione di chi non ha più nulla da perdere, Preiti aveva deciso di abbandonare il Nord per tornare a Rosarno nella casa degli anziani genitori. Ma l’assenza di reali cambiamenti e di prospettive di riscatto personale e lavorativo ha favorito in modo decisivo il tragico epilogo di questa mattina. Lungi dall’apparire dominato dalla follia, l’uomo avrebbe pianificato l’azione criminosa venti giorni fa, «studiando tutto nei dettagli». Così ieri è giunto in macchina a Gioia Tauro, ha preso un treno per Roma dove ha trascorso la notte in un anonimo albergo vicino alla stazione Termini, e questa mattina ha indossato il vestito più elegante per sembrare distinto e non avere difficoltà nell’accesso in Piazza Colonna.
L’obiettivo, però, non erano gli uomini dell’Arma, né gli agenti di Polizia. Come rivelato ai magistrati inquirenti, il suo scopo era colpire direttamente i politici. «E farlo nella maniera più eclatante, in un giorno così importante». La pistola, fattore di inquietante analogia con realtà dove l’accesso all’uso delle armi è un fatto consolidato, l’aveva acquistata quattro anni fa al mercato nero ad Alessandria. Soltanto quando si è reso conto dell’impossibilità di raggiungere i rappresentanti delle istituzioni e i ministri che proprio in quegli istanti sarebbero arrivati a Palazzo Chigi dopo aver prestato il giuramento, il muratore ha dirottato la sua furia disperata sui militari, «a coloro che stanno di fronte al palazzo», sparando tutti i colpi presenti nella pistola.
Ed è l’unico motivo per cui non ha trovato i proiettili necessari all’ultimo gesto pianificato a tavolino: togliersi la vita. Una pulsione autodistruttiva che si è riversata verso il mondo esterno, traducendosi nel duplice tentativo di omicidio di cui ora l’uomo deve rispondere, oltre all’imputazione di possesso illegale di arma. E che è stata perseguita con impressionante freddezza, come conferma il procuratore aggiunto Laviani al termine del primo interrogatorio: «Non sembra certo una persona squilibrata».