«Il vero problema è che la tecnologia ha sempre fatto paura ai politici e al nostro legislatore», dichiara Giovanni Ziccardi, professore di informatica giuridica dell’Università Statale di Milano. Risalendo la catena delle responsabilità, questo ci sarebbe dietro all’oscuramento di diversi siti di file-sharing disposto dal Gip di Roma lunedì 15 aprile. Dopo un mese di indagini – partite dalla denuncia di un piccolo distributore relativa al film francese di animazione “Un Mostro a Parigi” – condotte dalla polizia postale, il pubblico ministero ha chiesto e ottenuto l’oscuramento di 27 siti, alcuni tra i più popolari. Era dal novembre del 2010, quando la Homeland Secuirty americana aveva disposto il sequestro di 70 portali, che uno Stato non prendeva un provvedimento punitivo di queste dimensioni.
Professor Ziccardi, l’autorità giudiziaria italiana ha agito in qualche modo in misura sproporzionata o eccezionale?
L’azione del Tribunale di Roma ha seguito una modalità di procedere abbastanza tipica. Una casa di produzione o che, comunque, detiene i diritti su un certo film, nota che il film è disponibile – in streaming, come file o come torrent – e decide di domandare un’azione dei confronti del sito o dei siti che lo mettono a disposizione. Il diritto lo consente, spesso i Tribunali si trovano d’accordo nel disporre o il blocco alla connessione a quel dominio da parte degli utenti italiani o un vero e proprio “sequestro” del dominio, e l’azione viene portata a compimento. L’azione di Roma ha destato stupore per il numero di siti coinvolti e per un intervento, anche, nei confronti di contenuti e servizi pienamente leciti. Simili modalità d’azione in ogni caso non sono nuove. La legislazione che le prevede risale, nella sua forma originaria per il software, al 1992 ed è da allora che assistiamo periodicamente a sequestri e oscuramenti. Il punto è che ad oggi si sono sempre rivelati perfettamente inutili.
Inutili in che senso?
In primo luogo, la rapidità con la quale oggi si attivano siti, si spostano contenuti e si aggirano i blocchi, rende simili azioni più “prove di forza” che veri e propri rimedi sostanziali. Nel giro di pochi giorni sorgeranno altri siti in altri Stati. E il film che era alla base del sequestro è, già oggi, liberamente disponibile in ogni angolo del mondo. In secondo luogo è spesso abbastanza semplice aggirare questi blocchi disposti dal giudice, semplicemente utilizzando un software che mascheri l’IP o faccia figurare la connessione proveniente da uno Stato diverso dall’Italia. In tal senso la pronuncia del giudice diventa semplicemente di facciata e i siti che in teoria non sarebbero più raggiungibili dall’Italia sono in realtà perfettamente visibili con trucchi informatici che anche i ragazzini di dodici anni oggi sanno applicare.
Ma allora perché si insiste con azioni di questo genere?
Probabilmente sono fatte con il solo scopo deterrente di “spaventare” chi scarica film, ma anche in questo caso, nel corso degli anni, l’effetto è contrario. La prima reazione che ho avuto leggendo la notizia del maxi sequestro è stata quella di pensare che in un mondo liquido come quello odierno, dove incredibili moli di dati si spostano in un attimo da un sito all’altro e da un Paese all’altro, già nel giro di un paio di giorni ci sarebbero stati servizi identici e anche più efficienti di nuovo on-line.
Un mese di indagini della polizia postale e un procedimento penale portato avanti dall’autorità giudiziaria per ottenere un risultato assolutamente inutile sono uno spreco di soldi e, cosa ancor più grave nella giustizia italiana, di tempo. Di chi è la colpa? Perché i giudici non si astengono da questa perdita di tempo?
La colpa non è dei giudici. La legislazione del 1992 che contrasta la pirateria informatica prevede sanzioni penali anche molto gravi. Di fronte a una denuncia il pubblico ministero ha l’obbligo di portare avanti l’azione penale. Oggi però si percepisce una evidente sproporzione tra le pene così aspre e i comportamenti sanzionati, che sono percepiti decisamente come meno gravi. È qui che bisognerebbe intervenire, cambiando le leggi di riferimento. Si potrebbero depenalizzare molti dei reati in materia. La tutela del copyright non ne sarebbe certo indebolita e di contro si alleggerirebbe il carico di lavoro su giudici. Anche la polizia postale, che è competente a indagare su reati molto più odiosi e allarmanti come la pedopornografia, lo stalking e le truffe agli anziani, sarebbe liberata da certi incarichi.
Per sua stessa natura il web è globale e le leggi che lo regolano devono esserlo altrettanto. Finora però i tentativi di creare una normativa sopranazionale (ad esempio con Acta in Europa) non sono andati nella direzione “realistica” da lei suggerita, ma al contrario prevedevano più censure, più controlli e pene più severe.
Questo perché – al netto delle pressioni delle lobby – i politici sono spaventati dal web e dalla tecnologia, temono ciò che non capiscono. Di fronte alla costante violazione del diritto d’autore su internet, invece di portare avanti una riflessione sull’attuale stato della protezione del copyright e sulla sua adeguatezza all’era tecnologica moderna, si preferisce una messa in mostra delle armi, dei muscoli e degli eserciti in tribunale. Paradossalmente in questo modo si causa disagio spesso solo agli utenti legittimi – che magari hanno pure pagato per un servizio di cui ora non godono più – senza ottenere nella pratica alcun risultato.
Una legge che viene sistematicamente violata, spesso non è una buona legge. Un’ampia riflessione da parte del legislatore sulla normativa che tutela il copyright nell’era di Internet non è tuttavia all’orizzonte. Non ne sentono l’esigenza le case produttrici, che anzi preferiscono le attuali grida manzoniane dalle pene elevate e dalla scarsa efficacia, e non ne sentono l’esigenza gli utenti, che hanno oramai metabolizzato che “morto un sito, se ne fa sempre un altro”. Chi dovrebbe sentirne il bisogno è lo Stato (o “gli Stati”), che spende soldi e tempo inutilmente in una repressione senza senso, e la Politica che ne è responsabile. In un periodo di lotta agli sprechi sarebbe opportuno non rifinanziare guerre ai mulini a vento.