Papa Francesco, guardati le spalle dai clericali laici

Per Bergoglio la “mondanità spirituale” è uno dei mali del cattolicesimo

La mozzetta e le scarpe, la croce d’argento al posto di quella d’oro, le sottolineature sul fatto che ama ascoltare musica ma non gli piace cantare né durante le celebrazioni né quando impartisce le benedizioni perché forse «è un po’ stonato». E poi: il «Papa della tenerezza», il «Papa dei poveri», il «Papa dell’ecologia», il «Papa che si cucina da solo».

È comprensibile, soprattutto adesso che il pontificato è agli inizi, che ogni gesto di papa Francesco venga ripreso, analizzato e commentato. Ma quello a cui stiamo assistendo in queste settimane somiglia molto a una sorta di ubriacatura collettiva (hybris, direbbero gli antichi greci), quasi un clericalismo di ritorno. Beffardo contrappasso per un Papa che, esattamente come il suo predecessore, sembra molto allergico ai clericalismi e in più di un’occasione si è scagliato contro la «mondanità spirituale» che ha colpito molti uomini di Chiesa facendoli diventare autoreferenziali routinier della fede. Persino i media laici e progressisti, sempre pronti a stravolgere gli insegnamenti del Magistero, non fanno altro che sottolineare lo stile del nuovo Pontefice perdendosi in analisi minuziosissime sul tipo di calzature indossate, le vesti liturgiche preferite e il posto occupato la mattina a colazione nella residenza di Santa Marta dove Francesco ha scelto di vivere rifiutando di trasferirsi nell’appartamento papale al secondo piano del Palazzo Apostolico.

Siamo al culmine di un curioso paradosso: la Chiesa, in tutta Europa e non solo, viene condannata e addirittura invitata a tacere quando parla di questioni poco gradite al politicamente corretto, dalla bioetica ai temi del nascere, del morire e della famiglia, ed “esaltata” quando si parla d’altro: fossero gli abiti del Papa o i retroscena del Vaticano. Ecco che in questo caso i commenti, le attenzioni, persino gli elogi si sprecano. I sedicenti fustigatori dell’apparato ecclesiastico sono i primi, in realtà, parlando di qualsiasi cosa, anche minima, che lo riguarda, ad esaltarlo.

Ma questa è una tentazione solo mondana, dei laici, o riguarda anche molti uomini di Chiesa? Il virus si è diffuso anche nella Chiesa, ha detto papa Francesco per il quale il suo primo compito, in ogni tempo e oggi più che mai, è parlare a tutti gli uomini accompagnandoli, ascoltandoli, camminando con loro. E insegnando avendo rispetto della loro libertà di creature. Francesco lo ha detto chiaramente prima di entrare nel Conclave che lo ha eletto papa additando la «mondanità spirituale» come «il male peggiore della Chiesa», il cui unico dovere, ha spiegato, è quello di «uscire da se stessa» per evangelizzare le «periferie non solo geografiche ma esistenziali».

Parole sferzanti ma chiarissime. «Quando la Chiesa non esce da se stessa per evangelizzare diviene autoreferenziale e allora si ammala», è stata la diagnosi del cardinale Bergoglio durante la Congregazione generale dei cardinali del 9 marzo scorso, «i mali che, nel trascorrere del tempo, affliggono le istituzioni ecclesiastiche hanno una radice nell’autoreferenzialità, in una sorta di narcisismo teologico. Nell’Apocalisse, Gesù dice che Lui sta sulla soglia e chiama. Evidentemente il testo si riferisce al fatto che Lui sta fuori dalla porta e bussa per entrare…Però a volte penso che Gesù bussi da dentro, perché lo lasciamo uscire. La Chiesa autoreferenziale pretende di tenere Gesù Cristo dentro di sé e non lo lascia uscire».

Un esempio straordinario di questo approccio assai poco autoreferenziale papa Francesco lo ha offerto nell’omelia della messa di inizio pontificato, il 19 marzo scorso, quando, riprendendo la sfida drammatica lanciata dal Logos biblico, ha indicato come vocazione universale dell’uomo, di ogni uomo, al di là della sua fede, quello di «custodire». Il creato, l’altro, se stessi. Tutto ciò che non abbiamo fatto noi ma che ci è stato solo affidato o donato. Una riflessione molto simile a quella di Benedetto XVI che aprendo l’Anno della Fede lo scorso ottobre ha invitato la Chiesa a smetterla di organizzare dibattiti al suo interno per andare in «pellegrinaggio nei deserti del mondo contemporaneo».

Parole ancora più dure, in questo senso, papa Francesco le aveva pronunciate il 2 settembre scorso da arcivescovo di Buenos Aires commentando il brano del Vangelo di Marco in cui Gesù si scaglia contro scribi e farisei che lo “rimproverano” perché i suoi discepoli, contravvenendo alla tradizione, prendevano «cibo con mani impure» (Mc 7,1-8). «Voi», disse Bergoglio, «percorrete mezzo mondo per fare proseliti e poi li uccidete con tutto ciò. Allontanando la gente. Quelli che si scandalizzavano quando Gesù andava a mangiare con i peccatori, con la gentaglia, a questi Gesù rispondeva: “La gentaglia e le prostitute vi precederanno”, che era la peggior cosa da dire all’epoca. Gesù non li blandisce. Sono quelli che hanno clericalizzato – per usare una parola che si capisca – la Chiesa del Signore e la riempiono di precetti. No all’ipocrisia. No al clericalismo ipocrita. No alla mondanità spirituale».

In questo primo scorcio di pontificato, Francesco sembra proprio che debba “difendersi” da due tipi di clericalismo: quello, che è sempre esistito peraltro, che arriva dall’interno della Chiesa e quello, più sorprendente, che arriva dal mondo laico. Ad accomunarli, forse, c’è solo l’obiettivo: rendere banale la fede, svuotandola fino a renderla insignificante. 

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