Pink Floyd e Zeppelin, le copertine di Storm Thorgerson

Il grande grafico appena scomparso

Nella musica non conta solo la musica. O almeno, non è stato così da Elvis in poi. Nell’epoca dei dischi in vinile, la copertina di un album poteva avere un potere d’attrazione pari alle sue melodie. Nei casi migliori, ancora oggi, il lavoro di grafica è complementare allo stile musicale, e altrettanto utile per definire l’identità di un artista. L’esempio fondamentale è quello dei Pink Floyd. Se qualcuno vi chiede di ricordare una copertina famosa, la probabilità che si tratti di una dei Pink Floyd è molto alta. E la possibilità che questa sia stata creata da Storm Thorgerson è altissima.

«Storm Thorgerson è il miglior album designer al mondo». Douglas Adams, l’autore di Guida galattica per autostoppisti, ne era convinto: «Guardate le prove. Intendo: date un’occhiata alla vostra collezione di lp», scriveva nell’introduzione a una raccolta dei lavori di Thorgerson, morto il 18 aprile scorso a 69 anni dopo una lunga battaglia con il cancro. Amico di Syd Barrett, Roger Waters e David Gilmour fin dall’infanzia, secondo molti Thorgerson è stato il sesto Floyd: non ha suonato strumenti, ma ha avuto un ruolo essenziale nell’ideare l’immagine della band. Con lo studio Hipgnosis, da A Sauceful of Secrets (1968) in poi, ha disegnato quasi tutte le loro copertine (con la notevole eccezione di The Wall). Un compito esteso poi ai video, a partire dagli anni Ottanta. Sempre con l’idea di «usare elementi reali in modi irreali».

Thorgerson fondò Hipgnosis alla fine degli anni Sessanta a Londra, col collega Aubrey Powell, incontrato a Cambridge. Il nome della ditta fu scelto a partire da una scritta sul muro del loro appartamento. «Hipgnosis» non rimandava solo all’ipnosi, ma riecheggiava una strana contraddizione, nella differenza tra la prima sillaba «hip» (nuovo, intrigante, alla moda) e «gnosis», che rimandava a una sapienza antica. Il ragionamento non stupisce, pensando che si era nel periodo di massimo fulgore della psichedelia. Molti gruppi di allora componevano canzoni fatte di viaggi sonori e testi surreali. Per visualizzarle e farne capire l’originalità, lo stile dello studio di South Kensington era ideale: «Mi piace esplorare le ambiguità e le contraddizioni. Creare fratture, ma con dolcezza», ricordava Thorgerson. I Pink Floyd sono stati i primi clienti della lista, fin dal 1968, ma non sono gli unici nomi famosi. Thorgerson ha elaborato cover per Genesis, Peter Gabriel, Led Zeppelin, Black Sabbath. Una volta sciolta la società, nel 1982, continuò il lavoro in proprio, firmando altri celebri artwork per Alan Parsons, Muse, Cranberries, Biffye Clyro. Era già il designer più conosciuto del suo campo, almeno dalla copertina di Dark Side of the Moon in poi.

Descriveva così il suo metodo di lavoro: «Ascolto la musica, leggo i testi, parlo con i musicisti il più possibile. Mi vedo come un traduttore, che traduce un evento uditivo – la musica – in uno visuale – la copertina». Un pioniere della manipolazione fotografica, influenzato da Man Ray, Magritte, Picasso, Kandinsky, Juan Gris e Ansel Adams. Con poca simpatia per Photoshop: «Preferisco il computer nella mia testa a quello sulla scrivania».

Di seguito, alcune delle cover più famose di Storm Thorgerson, commentate quando possibile dalle sue stesse parole (prese quasi sempre dai libri che ha pubblicato).

Pink Floyd – Ummagumma (1969)
La foto alla parete riproduce l’immagine maggiore, ma con i membri della band in pose differenti. Il giochino della foto nella foto si ripete quattro volte, fino ad arrivare alla copertina di A Sauceful of Secrets, uscito l’anno prima. «Era un tentativo di rappresentare tanti diversi strati nella loro musica. Nessuna effimera pop band né alcun indovinello, qui: piuttosto strati dietro strati, accordi pieni di significato e tutto questo nella stessa musica».

Pink Floyd – Atom Earth Mother (1970)
Solo foto: niente titolo né nome della band. Semplice e innovativo. Ai Floyd, che hanno sempre provato a nascondersi fisicamente dalla scena, piaceva così. Chiesero qualcosa di molto semplice, per allontanarsi dall’immagine «cosmica» che veniva loro associata. Thorgerson raccontava di essersi fatto un giro in campagna e aver scattato una foto alla prima mucca che gli è capitata sotto gli occhi: «Foto ordinaria, mucca ordinaria, risultato straordinario». L’animale «rappresenta il loro umorismo», un lato dei Pink Floyd di solito sottovalutato.

Pink Floyd – The Dark Side of the Moon (1973)
«Le tue foto le abbiamo già usate. Ci vuole qualcosa di intelligente, pulito, di classe», aveva detto («con un pizzico di provocazione», secondo Thorgerson) il tastierista Richard Wright. Uscì fuori qualcosa di talmente semplice da essere perfetto. Di sette elaborati bozzetti, i Floyd scelsero quello giusto in meno di tre minuti. Il prisma, per Thogerson, ricordava una piramide, «qualcosa di ambizioso, cosmico e folle allo stesso tempo: temi presenti nei testi dell’album».«La luce riflessa da un prisma è un fenomeno naturale», disse l’artista alla Bbc. «Vorrei averlo inventato io, ma non è così!» Era anche un riferimento ai light show della band. 

Pink Floyd – Animals (1977)
La Battersea Power Station di Londra, tempio pagano agli dei dell’industria, domina la foto. Ma qualcosa non torna: che ci fa un maiale volante tra i comignoli? Qualcosa non tornò nemmeno nella realtà: le disavventure del maiale gonfiabile, sfuggito di mano e atterrato nei campi del Kent, meriterebbero un articolo a parte. 

Pink Floyd – A Momentary Lapse of Reason (1987)
«Abbiamo dovuto portare 800 letti d’ospedale su una spiaggia del Devon. Mi chiedo chi me l’abbia fatto fare». La creazione di quest’immagine, che doveva evocare «i resti di relazioni evaporate», è durata due settimane. Il deltaplano che si vede in cielo è un riferimento alla canzone «Learning to Fly».

Led Zeppelin – Presence (1976)
Tutto a posto, tranne un particolare. Cos’è quell’oggetto nero al centro del tavolo, adorato dalla normalissima famiglia al completo? «Forse una batteria cosmica, o un artefatto alieno, qualcosa di essenziale per la tua vita». È quella» la «presenza che dà il titolo all’album. I Led Zeppelin «erano dei colossi»: tutto quello che li riguardava, secondo Throgerson, era potente e gigantesco, eppure accettarono un design minimalista, dalla forza sottile. 

Peter Gabriel (1977)
Un tocco di made in Italy: l’auto in cui è seduto Gabriel era la Lancia Flavia dello stesso Thorgerson.

10 cc –Look, Hear (1980)
«la domanda da cui partire è: Sei normale? Non c’è nulla di più normale di una pecora, che tende a seguire il gregge. Ma per essere normale ci vuole una certa dose di psicoterapia».

The Cranberries – Bury the Hatchet (1999)
«La chiave è nel contrasto tra la terra rossa e il cielo blu, che doveva essere vuoto per fare da eco al paesaggio desolato ed enfatizzare che L’Occhio che Tutto Vede può raggiungerti dovunque sei».

Mars Volta – Frances the Mute (2004)
«I Mars Volta sono esotici, stravaganti, improvvisatori ma, quando occorre, tesi come un tamburo. Uno dei temi aspetti affrontati nel loro album è la dipendenza. Il tossicodipendente pensa di avere tutto sotto controllo ma non sa quello che fa. Ho immaginato degli automobilisti che si fanno strada nel traffico, ovvero nella vita, convinti di fare tutte le mosse giuste anche se in realtà non hanno idea di dove stanno andando. È un malessere generale: ce l’hanno tutti, quindi sono tutti incappucciati». 

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter