Quello strano paradosso nella guerra Renzi-Bersani

Dietro il voto per il Colle un Pd dilaniato da guerre intestine e diverse linee politiche

La battaglia per il Quirinale è da sempre quanto di più opaco e da “vecchia politica” avviene sulla scena del Palazzo. Senza candidature trasparenti e lealmente contrapposte, senza programmi espliciti degli eventuali concorrenti. Tutto si consuma nelle segrete stanze e negli incontri più o meno clandestini dei leader (anche di quelli presunti), con il contorno soffocante di lobbies e di gruppi di pressione più o meno commendevoli: tocca poi ai mille elettori eseguire, anche se, nel segreto del catafalco, non è impossibile la tentazione del “franco tiratore”.

Questa volta il rito dell’elezione del Capo dello Stato ha qualche valenza in più: c’è infatti in scia immediata l’incarico per un nuovo governo che “deve” nascere nella situazione drammatica del Paese e con difficoltà di trovare “numeri certi” in Parlamento, dopo l’esito ambiguo e non risolutivo delle elezioni del 24 febbraio.

E il voto per il Colle scuote le forze politiche e le sottopone ad uno stress difficilmente assorbibile. Nel caso del partito di maggioranza relativa quanto a gruppi parlamentari e a Grandi elettori il terremoto è particolarmente violento, facendo addirittura paventare un’implosione del Pd dilaniato da furibonde guerre intestine e da differenti linee politiche, oltretutto in un confronto fra le diverse anime e di reciproche inusitate, asprezze tra gli stessi maggiorenti.

In particolare il conflitto tra Bersani e Renzi ha raggiunto vette di risentimento del tutto inimmaginabili. Il segretario reagisce male, spesso sopra le righe, alle sollecitazioni a «fare presto» e a trovare una ragionevole intesa con il Pdl. Il sindaco, da par suo, bombarda con chirurgica precisione tutti nomi del Pd che potrebbero far parte della “rosa” di candidati.

Il duello non conosce tregua e appare indirizzato a una guerriglia continua, con il volonteroso contributo di una folla di comprimari. Eppure tutto appare poco convincente per una contraddizione palese, che pure il sistema mediatico sembra non incline a voler penetrare: e cioè che Bersani e Renzi se le danno di santa ragione proprio quando vogliono arrivare entrambi in ultima istanza all’incoronazione di Romano Prodi, perché a quel punto è la scelta politicamente più “conveniente” per tutti e due.

Infatti il segretario si guadagnerebbe la rottura con il Pdl e, con almeno una parte dei voti grillini già emersi a sostegno del Professore, potrebbe tentare con maggior successo di ottenere quel «governo di cambiamento» che è sempre stato in cima alle sue aspirazioni, senza commistioni con il centro-destra. Per il sindaco, che pure è sempre stato il più esplicito nel sostenere la necessità di un accordo con Berlusconi, la riuscita di Prodi significherebbe di conseguenza e dopo fasi di ulteriori instabilità l’approdo a nuove ravvicinate elezioni, dove la sua candidatura alla premiership troverebbe meno ostacoli del passato. Non solo: ma anche l’opportunità di esercitare un’egemonia anche culturale in un partito finalmente “non più comunista”.

È uno strano paradosso, ma la durezza delle male parole e dello scontro sembra alimentarsi alla fonte di una comune “convenienza”, pur se circoscritta alla vicenda del Quirinale. E tutto avviene nello scenario di un partito squassato e riottoso, dove la sopravvivenza di una formazione già afflitta dalla sindrome della “maionese non riuscita” appare ridotta al lumicino, pur nel pieno del consenso e dell’espansione del proprio potere.

Non è un caso infatti che si stia spendendo per custodire almeno un simulacro di unità del partito il cervello più “politico” (e più odiato), e cioè Massimo D’Alema, giunto ad ingoiare molti legittimi risentimenti pur di non perdere una risorsa preziosa e ormai indispensabile per il futuro come il guascone Renzi. Non è un caso che il sornione Berlusconi attenda sulla sponda e spinga perché le contraddizioni e le risse nel Pd gli restituiscano quella centralità politica che sembrava definitivamente perduta. A costo perfino che venga eletto quel Prodi che per lui sarebbe il peggior risultato immaginabile.

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