C’è un aneddoto che ogni tanto ritorna: si racconta che quando entrarono a casa sua, nella Isla Negra, per portarlo in ospedale, gli dissero: «Siamo venuti a prendere qualcosa di pericoloso». Allora lui, raccogliendo le forze, rispose: «Signori, l’unico pericolo qui è la poesia».
Domenica scorsa, quando ancora la luce naturale illuminava la tomba nel giardino della casa-museo con vista sull’oceano, Pablo Neruda è stato riesumato. Un’orchestra suonava El Aparecido de Victor Jara. L’hanno trovato un’ora e 18 minuti dopo, mezzo metro sotto terra. In una piccola bara, accanto ai resti della terza moglie, Matilde Urrutia. Poi il silenzio.
La versione ufficiale sulla morte del premio Nobel cileno, quella che nessuno aveva mai sollevato per quasi quarant’anni e che si ritrova nei libri di letteratura più accreditati, racconta che il poeta morì di cancro alla prostata il 23 settembre 1973, 12 giorni dopo il golpe di Augusto Pinochet contro il governo socialista di Salvador Allende.
E però la parola di un testimone chiave, che ha vissuto gli ultimi giorni fianco a fianco allo scrittore, potrebbe riscrivere la storia: il suo autista e assistente Manuel Araya, che oggi ha 66 anni, assicura da anni che il poeta fu avvelenato con un’iniezione letale nella clinica dov’era stato trasportato.
La versione di Araya è stata presentata insieme alla denuncia di omicidio e cospirazione in tribunale dal Partito comunista cileno, nel quale Neruda militava e per il quale fu senatore. E il giudice incaricato dell’inchiesta, Mario Carroza, l’ha infine ritenuta verosimile.
Così domenica scorsa i resti dell’autore del Canto General sono tornati alla luce, pronti per essere esaminati da una squadra di 12 periti, composta da esperti locali e stranieri. «È andata meglio di quanto ci aspettassimo», ha commentato subito dopo il responsabile del Servizio medico legale di Santiago, Patricio Bustos. I resti di Neruda adesso giacciono nel laboratorio d’antropologia di Santiago. Ma Bustos ha sottolineato che i risultati dello studio «dipenderanno da ciò che troveremo all’interno dell’urna». E che ci vorranno parecchie settimane. Le tracce per poter chiarire il caso sono di due tipi: le prime relative al cancro alla prostata, le seconde all’eventuale presenza di sostanze tossiche.
La ragione ufficiale del trasferimento di Neruda dalla Isla Negra alla clinica Santa Maria in Santiago il 19 settembre 1973 era stata il suo delicato stato di salute. Ma secondo Araya e alcune persone vicine al poeta, potenziale bersaglio della repressione del governo per la sua statura politica e culturale, in realtà esisteva un piano per portarlo nottetempo in Messico.
Nella sua testimonianza l’ex autista assicura che l’ambasciatore messicano a Santiago, Gonzalo Martinez, aveva ottenuto una camera nella clinica Santa Maria, dove il poeta poteva aspettare al sicuro, fino all’arrivo dell’aereo che lo avrebbe portato in terra azteca. Ma non riuscirono mai nell’intento. Il 23 settembre il premio Nobel moriva di «cachessia cancerosa», come risulta scritto sul certificato di morte.
Secondo Araya il giorno prima della morte successe però qualcosa. Mentre preparavano i bagagli ricevette una telefonata di Neruda che chiedeva alla moglie e all’autista di rientrate subito a Santiago: «Era molto preoccupato. Disse che mentre dormiva nella sua stanza erano entrati e gli avevano iniettato qualcosa in pancia», si legge nella denuncia.
Il giorno dopo la morte di Nerurda, El Mercurio, il principale quotidiano cileno, scriveva: «In seguito allo shock sofferto in seguito a una iniezione di calmanti le sue condizioni si aggravavano». Un piccolo dettaglio che adesso avvalora la tesi dell’assassinio.
Non tutti però credono a questa versione dei fatti, a partire dalla moglie Matilde, che in passato ha sempre accettato la tesi della morte per tumore, così come la stessa Fondazione dedicata a Pablo Neruda. Anche alcuni familiari dubitano. «La dittatura non ebbe nulla a che vedere. Sarà difficile togliersi di dosso l’oltraggio, che rimarrà nella storia di chi l’ha costruito, al di là del risultato», ha detto alla Cnn cilena il pronipote dello scrittore Bernardo Reyes, subito dopo la riesumazione del corpo.
L’urna intanto usciva dalla Isla Negra avvolta in una bandiera cilena, mentre gli specialisti la passavano sotto i raggi X e telecamere e fotografi immortalavano il momento. In lontananza poi qualcuno gridava «giustizia».