Il pagamento di 90 o più miliardi di debiti arretrati della pubblica amministrazione è apparso finalmente a tutti come la medicina più urgente per rianimare il paziente (il sistema imprese) dalla sua critica mancanza di liquidità e fermare un processo di insolvenze a catena che si autoalimenta. Peccato che la somministrazione decisa dal governo con l’ultimo decreto è ancora una volta sbagliata.
Per capire cosa si dovrebbe fare occorre anzitutto capire cosa non va nel nuovo dispositivo:sostanzialmente tre passaggi. Il primo, il più importante, è che la certificazione di un credito che ha ben più di 60 giorni di anzianità non è necessaria e non si dovrebbe neppure discuterne. Prima di tutto perché la certificazione non è prevista nell’ordinamento dei rapporti commerciali tra privati, è ridicolo che lo sia proprio verso lo Stato. In secondo luogo perché se anche fosse un credito contestato dal debitore pubblico sarebbe stato contestato da tempo, in terzo luogo perché utilizzare un credito contestato (o finto) per procurarsi liquidità dalle banche entrerebbe a pieno titolo nelle violazioni del codice penale (ricorso abusivo al credito) e quindi l’imprenditore se ne guarderebbe bene di utilizzarlo se non intende correre rischi personali.
La prima misura è pertanto l’eliminazione dellaburocratica e farraginosa procedura di certificazione che, con la piattaforma poco digitale predisposta da Consip, toccherebbe 60 milioni di fatture secondo la stima di alcuni operatori specializzati. Un volume spaventoso per il quale il solo input potrebbe richiedere – al tempo di un minuto per fattura – ben 340 anni per essere inserito nel sistema. Si rischia anche il raddoppio del tempo tra input e successiva verifica del Ministero dell’Economia.
Il secondo problema creato incredibilmente dalnuovo decreto, sull’onda delle proteste di un Movimento 5 Stelle forse impreparato in materia, è l’uccisione dello smobilizzo pro soluto, l’unica forma senza rischi per le imprese creditrici. Questo vale sia per 11 miliardi di crediti già acquistati pro soluto dalle banche, che per il futuro. Un vero boomerang, creato da una norma che cancellando l’ordine cronologico per sfavorire le banche, sfavorisce le imprese, intaccando principi del diritto fallimentare e della costituzione (la par condicio creditorum è violata) e aprendo voragini di arbitrarietà o spazi di corruzione nei funzionari pubblici che potranno stabilire gli ordini di priorità sui debiti arretrati. Poiché la cessione pro soluto dei crediti verso la Pa è la priorità finanziaria delle imprese, per i motivi che dirò in coda, questa norma va eliminata, non ci sono se e ma. Chi ha creduto di fare un dispetto alle banche, ha in realtà danneggiato le imprese con uno spettacolare autogol.
Il terzo motivo è che il Governo e i ministeri competenti si sono dimenticati che qualora le banche fossero chiamate ad anticipare, o smobilizzare, 40 o 90 miliardi di crediti hanno liquidità utilizzabile ma non capitale sufficiente (bastava chiederlo all’Abi…) a meno che, come si è fatto in Francia, lo Stato e la Banca d’Italia riconoscano ponderazione zero a questi crediti, in quanto pienamente garantiti dallo Stato. Non era forse quello che si voleva con il decreto? Lasciando ponderazioni di capitale immutate le banche non potranno mai digerire un afflusso di impieghi di queste proporzioni.
Cos’altro potrebbe essere fatto per velocizzare l’afflusso di liquidità alle imprese, una volta eliminato l’onere della certificazione, i vincoli al prosoluto e assicurando a banche e società di factoring la ponderazione zero? Si potrebbe modificare il circuito che lega domanda e offerta, digitalizzando il processo dei famosi 60 milioni di fatture, approntando in breve tempo una piattaforma dedicata all’interno del Cbi (Corporate Banking Interbancario), gestito dall’Abi e usato oggi da tutte le banche e tutte le imprese, anche piccole, per incassi e pagamenti. Un modulo (vedi figura sopra) che può attivare efficacemente richieste di smobilizzo alle banche, inserimento di copie digitali delle fatture e trasmissione al lato pubblico, sia gli enti che possono collegarsi e vedere i crediti ceduti, sia chi sarà proposto alla verifica sul pagamento dei nuovi crediti, che per legge (ma per ora non è così) dovrebbero essere regolati al massimo entro 60 giorni. Il Cbi è uno dei sistemi più efficienti al mondo nella interconnessione multipla imprese-banche e sono certo che saprebbe trovare soluzioni rapide e contenere informazioni sui tempi di lavoro e sull’elenco dei debitori graditi e sgraditi alla banca, se questo problema rimanesse.
Ultima considerazione da professionista che si occupa di credito bancario e imprese in crisi. Senza rimuovere queste barriere rimarrebbe sul campo un mostriciattolo finanziario inutile: le banche compreranno malvolentieri crediti “pro solvendo”, perché sarebbero costrette a staccare nuovi fidi alle imprese, e necessariamente eviterebbero di farlo a quel 40% forse 50% di imprese troppo rischiose, sempre per non consumare troppo capitale.
Sarebbero tagliate fuori dal meccanismo di smobilizzo proprio le imprese più fragili, che sono tali in quanto da lungo tempo creditrici della Pa e indebitate esageratamente con le banche per finanziare lo Stato. Un vero controsenso rispetto alle finalità del provvedimento. Dispiace che queste cose non siano state spiegate dai tecnici al governo, che non è sempre così tecnico. Dispiace che ABI e Confindustria con le loro persone competenti non abbiano spiegato preventivamente agli estensori del decreto cosa serviva e perché. Ora raddrizzarlo è sicuramente più difficile.
*consulente indipendente e fondatore di Linker