«Affrontare la disoccupazione è la sfida sociale più importante che ci troviamo davanti». Lo si legge a chiare lettere nelle conclusioni del summit Ue del 14 e 15 marzo scorsi. Almeno a parole i leader Ue si rendono sempre più conto che l’emergenza lavoro è ormai la priorità assoluta. La crisi aiuta ad aprire gli occhi: secondo gli ultimi dati della Commissione europea, la disoccupazione nel gennaio 2013 è aumentata ancora, toccando i 26,2 milioni nell’Ue nel suo insieme e 19 milioni nell’eurozona, pari rispettivamente al 10,8% e all’11,9%. Il tutto con un crescente divario tra Nord e Sud dell’Unione.
L’obiettivo fissato per il 2020 – un’occupazione media nell’Ue del 75% – è ancora lontano. Nel 2011 si era fermi al 68,6% (per l’Italia, a fronte di un target nazionale del 67-69%, nel 2011 si era fermi al 61,2%, e la situazione è certamente peggiorata).
Eppure, l’Unione europea non riesce a fare sul fronte del mercato del lavoro quello che ha fatto su quello della disciplina di bilancio. Uno dei problemi principali è che le politiche occupazionali restano in mano nazionale.
Qualcosa, certo, l’Ue cerca di fare, anche se si tratta soprattutto di incentivi agli Stati membri. La misura più recente e tangibile è il piano per combattere la disoccupazione giovanile (in media nell’Ue al 23,6%, ma con picchi drammatici in quasi tutto il Sud Europa, Italia inclusa). I leader hanno stanziato a febbraio 6 miliardi di euro per le aree dell’Ue con disoccupazione giovanile sopra il 25%, la Commissione ha già preparato un pacchetto di misure, che dovrebbero partire dal 2014. La base è un documento, presentato dall’esecutivo Ue il 5 dicembre 2012, che raccomanda agli Stati membri di attuare misure per garantire che i giovani fino ai 25 anni «ricevano un’offerta qualitativamente buona di impiego, di formazione continua, di apprendistato o di tirocinio entro quattro mesi dall’uscita dal ciclo scolastico o dall’inizio del periodo di disoccupazione».
Circa metà di questi 6 miliardi provengono da uno dei principali strumenti per il sostegno alle politiche nazionali di occupazione, il Fondo sociale europeo (Fse, a sua volta alimentato dai fondi strutturali Ue), che può contare su circa 10 miliardi di euro l’anno nel periodo 2007-13. Il Fse punta a sostenere gli stati con misure per rilanciare l’adattabilità dei lavoratori e delle imprese, fornire accesso a finanziamenti per le start-up, sostenere l’innovazione delle imprese.
Più mirato alle aree deboli è il Fondo europeo di sviluppo regionale, che punta proprio al rilancio dell’occupazione nelle aree più depresse e degli Stati membri più poveri. Da notare che i leader per il bilancio 2014-20 hanno ridotto i fondi complessivamente disponibili per il sociale e la coesione da 354,82 miliardi del precedente settennato a 325,15 miliardi.
Un altro strumento Ue che cerca di aiutare l’occupazione è il Fondo europeo di adeguamento alla globalizzazione (Feg), dotato di 500 milioni di euro l’anno nel periodo 2007-13. È rivolto ad aiutare i lavoratori a trovare un nuovo impiego e a riqualificarsi quando rimangono disoccupati a seguito di mutamenti strutturali del commercio mondiale o a seguito della crisi economica e finanziaria mondiale. Da notare che nel bilancio Ue per il periodo 2014-2020 i fondi per il Feg sono stati decurtati dei leader a soli 150 milioni di euro l’anno.
Per il resto, c’è poco più che consigli e raccomandazioni. Nell’aprile 2012, la Commissione ha lanciato la «strategia europea per l’occupazione»: una serie di “ricette” che dovrebbe applicare gli stati: meglio utilizzare gli incentivi per chi assume, ridurre il cuneo fiscale, trasformare il lavoro sommerso in occupazione ufficiale, puntare su settori ad alto potenziale come l’hitech, tanto per fare alcuni esempi.
A febbraio scorso Bruxelles ha presentato il “Pacchetto di investimento sociale” in cui promette assistenza per aiutare gli stati membri ad attuare politiche «volte a migliorare le capacità dei cittadini a partecipare alla società e al mercato del lavoro». E promette che vaglierà con attenzione le misure nazionali per le riforme del mercato del lavoro quando, tra aprile e giugno, dovrà analizzare i piani nazionali di riforma nell’ambito del Semestre europeo.
E come dimenticare il famoso Patto per la Crescita lanciato nel giugno 2012 dai leader Ue? In verità è la classica montagna che partorisce il topolino (oltretutto per ora quasi niente è stato attuato). I punti più concreti riguardano la mobilitazione di 120 miliardi di euro (niente soldi freschi, ma ritrovati tra le pieghe del bilancio) per la ricapitalizzazione di 10 miliardi di euro della Banca europea degli investimenti o il lancio di una fase pilota dei project bond (il finanziamento pubblico di una parte di un progetto di rilevanza europea per attirare poi investimenti privati), e «misure a sostegno della crescita» per 55 miliardi di euro.
Da ricordare anche la comunicazione sulla nuova politica industriale dell’Ue presentata dal commissario all’Industria Antonio Tajani. Tra i pilastri principali: investimenti nell’innovazione, migliori condizioni di mercato, il più facile accesso al credito e ai capitali, grazie anche all’aiuto della Bei. Senza dimenticare che nell’accordo sul bilancio dell’Ue 2014-2020 (che dovrà passare però il vaglio dell’Europarlamento), i leader hanno destinato proprio al capitolo volto a rilanciare la competitività europea 125,6 miliardi di euro, in netto aumento rispetto ai 91,5 miliardi del precedente periodo di bilancio, ma meno di quanto chiesto dalla Commissione (155,52 miliardi).