Opportune et importuneUna chiesa meno romana, il primo mese di Francesco

Ma resterà deluso chi vagheggiava un Vaticano pronto a rinunciare ai suoi poteri

Alla vigilia del Conclave sembrava dovesse essere la priorità assoluta del nuovo pontificato. Qualcuno s’era pure spinto a vagheggiare una sorta di primi “cento giorni” come se il pontefice fosse un capo di governo con un’agenda di riforme da realizzare il più in fretta possibile. Eppure, nel suo primo mese sul soglio di Pietro, papa Francesco non ha mai parlato della riforma della Curia, chiacchierata e discussa come non mai dopo il ciclone Vatileaks additato (a torto) come la causa principale delle dimissioni di Joseph Ratzinger. Sabato 13 aprile, a un mese esatto dall’elezione, il pontefice ha annunciato, sulla scorta delle indicazioni emerse nel pre Conclave durante le congregazioni generali, di aver istituito una sorta di «consiglio della corona», composto da otto cardinali che dovranno collaborare con lui, «consigliarlo nel governo della Chiesa universale» e «studiare un progetto di revisione» della costituzione apostolica Pastor bonus emanata da Giovanni Paolo II nel 1988 che regola l’attività della Curia e che oggi più che mai mostra le sue crepe.

Non è certo un caso che l’annuncio di questa decisione sia arrivato allo scoccare del primo mese di pontificato. È un segnale indubbiamente importante perché indica il metodo scelto da Papa Bergoglio: dotarsi di uno strumento collegiale, un gruppo di lavoro con poteri consultivi, sull’esperienza del sinodo, l’assemblea composta da circa duecento vescovi in rappresentanza dei cinquemila di tutto il mondo che ogni due anni si riunisce a Roma per discutere di un tema di particolare urgenza per la vita della Chiesa. Ogni sinodo elegge alla fine dei lavori un’élite più ristretta di vescovi, tre per continente, per coordinare i lavori e fare da “pontieri” verso il sinodo successivo.

Della commissione voluta da Francesco fanno parte l’arcivescovo Giuseppe Bertello, unico italiano, con una lunga esperienza diplomatica alle spalle e tra i papabili per il ruolo di prossimo Segretario di Stato. Gli altri sette sono Francisco Javier Errázuriz Ossa, arcivescovo emerito di Santiago de Cile; Oswald Gracias, arcivescovo di Bombay; Reinhard Marx di Monaco di Baviera, Laurent Monsengwo Pasinya di Kinshasa (Congo); Sean Patrick O’Malley di Boston; George Pell di Sydney. Infine, il secondo latinoamericano, nonché coordinatore del gruppo di lavoro, è Oscar Andrés Rodríguez Maradiaga, arcivescovo di Tegucigalpa. Nel ruolo di segretario c’è il vescovo di Albano Laziale, Marcello Semeraro, la diocesi di cui fa parte anche Castel Gandolfo. Sette porporati su otto non lavorano a Roma e permetteranno al Papa di avere maggiormente il polso delle chiese locali.

Gli strumenti non ingannino, però. Papa Francesco, come ha dimostrato in questi primi giorni, preferisce agire direttamente quando sarà il momento applicando quel metodo che ha confessato di aver adottato efficacemente da arcivescovo di Buenos Aires: avvicinare tutti, meglio se in maniera informale e confidenziale, per parlare e informarsi e poi prendere le decisioni in solitudine dopo la preghiera e il discernimento che ogni gesuita attinge dai quotidiani esercizi spirituali sul metodo di Sant’Ignazio. Questo è il suo stile che non contraddice affatto la (necessaria) collegialità voluta dal Concilio Vaticano II e in gran parte ancora inattuata. Il centro, ossia il ministero petrino, non deve trasformarsi in un centralismo eccessivo e poco efficace. In ogni caso, chi si aspettava un Papa arrembante o particolarmente loquace sulla riforma della Curia e le strutture burocratiche della Chiesa sarà rimasto senz’altro deluso dal profilo basso tenuto finora. E resterà ancor più deluso chi, richiamandosi a improbabili miti pseudo francescani e pauperisti, vagheggia una Chiesa pronta, con Francesco, a rinunciare di colpo a poteri, gerarchie e strutture facendosi puramente spirituale.

In questo mese ovviamente Papa Francesco ha preso decisioni e ha parlato. Ma di cosa? Di «misericordia», anzitutto, richiamando ai fedeli la pratica della confessione. «Il messaggio di Gesù è la misericordia. Per me, lo dico umilmente, è il messaggio più forte del Signore», ha detto in una delle prime omelie. Per poi ribadire: «Torniamo al Signore. Il Signore mai si stanca di perdonare: mai! Siamo noi che ci stanchiamo di chiedergli perdono. E chiediamo la grazia di non stancarci di chiedere perdono, perché Lui mai si stanca di perdonare».

Ha invitato la Chiesa a farsi pellegrina e «uscire da se stessa» per evangelizzare le «periferie non solo geografiche ma anche quelle esistenziali: quelle del mistero del peccato, del dolore, dell’ingiustizia, quelle dell’ignoranza e dell’assenza di fede, quelle del pensiero, quelle di ogni forma di miseria». Ha parlato, e tanto, di fede, avvertendo che bisogna superare «la tentazione di essere un po’ “come fanno tutti”, non essere tanto tanto rigidi», perché, ha detto, proprio «da lì incomincia una strada che finisce nell’apostasia». Infatti «quando incominciamo a tagliare la fede, a negoziare la fede, un po’ a venderla al migliore offerente, incominciamo la strada dell’apostasia, della non fedeltà al Signore».

Il Papa, dunque, ha richiamato al primo e fondamentale compito che Gesù assegna a Pietro: «Conferma nella fede i tuoi fratelli». Un monito, implicito, a chi, anzitutto nella Chiesa, si preoccupa solo degli effetti sociali, politici, e culturali della fede dandola per ovvia e scontata. Non è così, soprattutto in Occidente. La prima “riforma”, sulla quale la Chiesa intera sta o cade, è questa.

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter