In un clima mesto, lontanissimo dagli eccessi e dalla teatralità del suo “padre adottivo”, Nicolás Maduro Moros ha conquistato le elezioni presidenziali del Venezuela, ottenendo una vittoria di misura sull’avversario Henrique Capriles. Il candidato e delfino di Hugo Chávez, favoritissimo a questa nuova tornata elettorale, la prima dopo la scomparsa del generalissimo lo scorso 5 marzo, ha raccolto il 50,66% delle preferenze contro il 49,07 di Capriles, con una risicata differenza di 235 mila voti: un risultato che ha smussato gli entusiasmi e cancellato il clima festoso, creando fino all’ultimo il timore di una terribile disfatta. Lo scorso 7 ottobre Chávez aveva battuto lo stesso Capriles con il 55,07% contro il 44,31% dei voti e con una partecipazione record dell’80,56%, mentre ieri l’affluenza è stata del 78,71%.
Maduro, 49 anni, ex autista di autobus ed ex sindacalista, da giorni raccontava in lacrime l’aneddoto del colibrì rivelatore, «un pajarito chiquitito», apparsogli ad annunciare l’imminente vittoria mentre era raccolto in preghiera nella piccola cappella di Barinas. E invece ha dovuto attendere fino a tarda notte, in un clima di tensione e di incertezza, l’annuncio liberatore del Cne (Consiglio nazionale elettorale) che ha ufficializzato la sua vittoria. Un annuncio ritardato di diverse ore e che ha rinfocolato i sospetti di brogli, benché le parole di Tibisay Lucena, presidente del Cne, che dopo il conteggio del quasi 99% delle schede ha decretato “irreversibile” la vittoria di Maduro, messa, però, in discussione, non solo dallo sfidante della Mesa de unidad nacional (Mud), l’avvocato Capriles, ma anche da un membro del Consiglio, Vicente Diaz che, invece, ha parlato apertamente d’irregolarità e invocato una nuova verifica. Il neo eletto presidente si è dichiarato disponibile al riconteggio, come prevede la legge elettorale, ma ha invitato a «rispettare la decisione del popolo».
La prima consultazione popolare, dopo 14 anni ininterrotti di “chavismo”, è stata anticipata da dieci infuocati giorni di campagna elettorale che hanno mostrato il volto peggiore del Venezuela con tre omicidi e vari e misteriosi black-out. Nei quartieri di Prados del Este, il quartiere borghese e residenziale di Caracas, in gran parte anti-governativo, da giorni girava un avviso che invitava a fare scorte di olio per difendersi dalle orde di «patanes, i grezzi seguaci del chavismo» nel caso questi avessero attaccato gli edifici dopo la vittoria di Maduro.
Ora, archiviate in parte le accuse più o meno teatrali delle due fazioni rivali, archiviati anche i tre puntuali “omicidi elettorali” nelle ore della votazione, il presidente Maduro, ex ministro degli Esteri, dovrà dimostrare di saper fare e dire qualcosa in più di quel «Ho molte informazioni sulle relazioni con gli Usa», perché è proprio l’odiata-amata superpotenza con la sua colossale sete di petrolio che tirerà i fili degli accordi economici con forse, inedite aperture politiche. «Se loro sono pronti a regolarizzare le relazioni con il Venezuela, sulla base del rispetto e dell’uguaglianza – ha dichiarato Maduro pochi giorni prima del voto – noi siamo pronti, ma non accetteremo che venga umiliata la sovranità di questo Paese da parte di nessun impero», riproponendo, così, la solita litania demagogica cara al Líder máximo.
Da Washington sulle elezioni venezuelane avevano da giorni le idee chiare su quali fossero esiti e futuri scenari. «Ci aspettiamo la vittoria di Maduro e la continuazione della tradizione di Chávez», ha detto, poche ore prima del responso delle urne, James Clapper, direttore dell’intelligence di Washington, durante un’audizione al Congresso Usa. Perché tale interesse per gli americani non è casuale: lo Stato sudamericano non solo è il più turbolento dirimpettaio degli Usa, ma anche il Paese con le maggiori riserve petrolifere al mondo (300 mila milioni di barili, più di quelle dell’Arabia Saudita). E, quindi, il Venezuela del dopo Chávez, con un nuovo líder meno carismatico e più decifrabile, rimane un partner commerciale inseparabile, nonostante i rapporti da sempre tesi, le recenti espulsioni di due diplomatici nordamericani e il fango gettato anche da Maduro con le demenziali accuse di responsabilità degli yankees nella morte del generalissimo.
Del resto la stabilità del Venezuela, il terzo fornitore al mondo di greggio per gli Usa, sta da sempre a cuore alla Casa Bianca, benché il serpeggiante neo socialismo del XXI secolo, benché la folle politica statalista che ha espropriato e cacciato decine di imprese americane nell’ultimo decennio. E Caracas ha un disperato bisogno di ogni bene e genere alimentare, ha bisogno di medicine, di medici, di tecnologia e, persino, di benzina che non riesce a raffinare per l’arretratezza dei suoi impianti e che acquista dal “diablo yankee” per 200 mila barili al giorno.
È quindi una più che vitale necessità tenersi ben stretto l’inquieto “amico” sudamericano, anche se socialista e anti-americano che in 14 anni di chavismo ha fatto di tutto per sottrarsi all’influenza e all’egemonia della Casa Bianca con la quale, tuttavia, non ha mai interrotto l’attività commerciale, pur riducendone il flusso, ma intessendo una solida e stabile “diplomazia petrolifera”.
Poi, non meno importante, sarà il rapporto del nuovo Venezuela di Maduro con gli altri Paesi Sudamericani. Nell’ultimo decennio, con l’ingresso nel Mercosur (il mercato comune sudamericano), l’istituzione dell’Alba (l’associazione che riunisce gli “Stati con affinità ideologiche”) e l’adesione alla Celac (la Comunità economica latinoamericana), il Venezuela si è imposto come l’energica locomotiva di tutto il Caribe, mostrandosi disponibile fino alla rovina con gli Stati ancora minati da pericolose fragilità interne (come Cuba e l’Uruguay), ma anche alleandosi con quelli emergenti, come Brasile e Argentina, con i quali è stato subito amore, grazie ai rapporti con Lula e i Kirchner. Senza dimenticare l’adorato Fidel Castro a cui Caracas ha regalato milioni di barili di greggio in cambio di medici. Uno scambio che, però, è stato sempre in perdita: infatti, se dagli Usa arriva molta liquidità in pregiati bigliettoni verdi, i generosi scambi commerciali con i Paesi di “ideologia affine” hanno inciso pesantemente sul debito della bilancia dell’export, gonfiato dal credito di interessi di un misero 1% a 30 anni e da un ritorno in generi che vanno dal caffè, al grano, ai vestiti per un valore di scambi totali tra le nazioni del Cono Sur che tocca i mille milioni di dollari.
E non dimentichiamo la Cina e la sua aggressiva politica commerciale che ha quadruplicato gli affari nel continente latinoamericano. Pechino come Washington ha una gran sete di oro nero, in cambio delle forniture, riversa ogni anno sul Venezuela 18 miliardi di dollari in finanziamenti: il 65% dell’export di Caracas in Cina è petrolio, mentre il 29% i derivati della sua lavorazione.
Con tutti questi interessi in ballo, le velleità geopolitiche e ideologiche si genuflettono da sempre davanti al guadagno e il presidente eletto Maduro, quasi sicuramente, imposterà il pilota automatico, nel nome del suo ingombrante predecessore. Da cui mai, forse, si staccherà. Ma il Venezuela dovrà risolvere i suoi non meno ingombranti problemi, dalla povertà di un’ampia parte del Paese all’inflazione che galoppa oltre il 20% fino alla terribile piaga della violenza che è ormai diventata guerriglia in un Paese dove in casa si trovano armi militari con cui si alimenta la micro e macro ciminalità. Una violenza che ogni anno falcia migliaia di vite, che spaventa il turismo, che regala una pessima nomea al Paese e che i quasi quindici anni di chavismo hanno aumentato a livello esponenziale, assieme alle rapine, alle estorsioni e ai rapimenti. Nel Palacio de Miraflores sono molti i guai che attendono Maduro che ora, dopo le lacrime, gli aneddoti plateali e tutta l’agiografia del suo “padre e mentore”, dovrà trovare il coraggio, di costruirsi una sua leadership, per non essere condannato a essere il “ranchero”, il disperato scappato dalla campagna e benedetto dal chavismo.