È una storia di donne e champagne, orge e débauche: Welcome to New York di Abel Ferrara lo hanno visto in pochi, solo qualche spezzone, poco più di un trailer con dovizia di nudi, sigari avana e grand’hotel. Il film al festival di Cannes non viene mostrato alla stampa, ma solo a potenziali acquirenti, però è sulla bocca di tutti, fa titolo sui giornali francesi e su quelli inglesi.
E’ l’ultimo prodotto della serie cochonnerie de luxe che in due anni ha riempito le edicole e gli schermi, perché su Dominique Strauss-Kahn (detto DSK) e le sventure della virtù (per citare il marchese de Sade), si sono costruite carriere magari effimere ma redditizie. Ex amanti diventate scrittrici, libri-vendetta di donne umiliate e offese, rimaste a lungo silenziose, en attendant. Fugaci passioncelle che a posteriori scoprono il porco: “Belle et Bete”, come recita il titolo di una delle peggiori tra le pessime speculazioni ordite finora, quella dell’argentina Marcela Iacub alla quale sono bastati otto mesi sopra e sotto le coperte per partorire un’opera per la quale recensori compiacenti hanno scomodato Kafka, Foucault, Houellebec e chi ne ha più ne metta nel gioco perverso del pettegolezzo e della fama. Ferrara ha scelto Gérard Depardieu; sembra l’attore giusto per interpretare DSK anche perché dice di odiare dal profondo del cuore quel monumento al francese arrogante. E per di più socialista. La sua interpretazione sarà magistrale, certo non ben temperata.
Ha peccato DSK? Accidenti. Del resto, non si è mai pentito di essere un grande peccatore. Si è sporcato con “la merda e il sangue” della politica? E come no, non s’è negato nulla nemmeno sotto questo profilo. Ha commesso violenza contro Nafissatou Diallo, la cameriera del Sofitel di Manhattan il 14 maggio 2011? Prima presentata come eroina femminista nella lotta contro il sessismo e il razzismo, la donna raggiunge poi un accordo milionario nel dicembre 2012. C’est la vie. Quasi sempre finisce così se si ha dall’alta parte delle sbarre un personaggio famoso, ricco, potente. Certo è che Dominique Strauss-Kahn mantiene ancora il fascino della sfrontata intelligenza e del combattente che non molla mai. Nemmeno adesso che, precipitato da una delle vette più alte della nomenclatura globale come la direzione del Fondo Monetario internazionale, ha toccato davvero il fondo.
Perché dopo la Diallo spunta Tristane Banon che lo denuncia per un tentato stupro nel 2002. La giovane donna, giornalista e scrittrice, è la figlia di Anne Mansouret, dirigente del Partito socialista, consigliere dell’Haute-Normandie, già amante di DSK. C’è poi l’affaire del Carlton di Lille: l’accusa è sfruttamento della prostituzione per una notte brava organizzata con delle escort. E poi ecco la “filosofa” Iacub che perde la testa dal gennaio all’agosto 2012 (dunque quando il caso Diallo è ancora bollente), scopre che il suo amante è “un poeta dell’abiezione e della sporcizia”, “mezzo uomo e mezzo maiale”. E ci scrive su un presunto best-seller che DSK tenta invano di bloccare. Ottiene solo un risarcimento: 50mila euro dall’autrice e 25mila dal Nouvel Observateur (sì proprio lui il già sofisticato settimanale di sinistra) che pubblica l’anteprima.
A piede libero su cauzione, DSK ha fondato una società di consulenza chiamata Parnasse (nomen omen?), va in giro a tenere conferenze, utilizza le relazioni che gli restano per mediare rapporti d’affari. Si tiene lontano dalla politica, dopo aver sfiorato la candidatura a presidente della République. Lo chiamano spesso in Africa. In Sudan del sud ha partecipato recentemente all’inaugurazione della National Credit Bank. In Marocco, sua seconda patria, è stato invitato da un’università privata di Marrakesh e lì si è lasciato andare in una polemica contro “un grande paese che tassa troppo i ricchi deprimendo lo spirito d’impresa” (l’allusione alla Francia di François Hollande, suo vecchio compagno e rivale nel Psf, non poteva essere più esplicita).
Ha trascorso un lungo periodo di depressione e solitudine. Andava in giro per Parigi con la barba lunga e gli abiti stazzonati. Nella splendida casa nel Pavillon de la Reine in place des Vosges, nel Marais, alle spalle della Bastiglia, uno degli indirizzi più prestigiosi, era rimasto solo. Ora si è trasferito in un appartamento meno sontuoso a Montparnasse. La moglie lo ha lasciato (ma non sono divorziati) dopo un primo tentativo di stare al suo fianco più all’americana che alla francese. Lei ha pubblicato da poco un bel libro (“21, rue de la Boétie”) sulla sua famiglia di ricchi mercati d’arte ebrei: il nonno, Paul Rosenberg, scoprì e foraggiò a lungo Picasso prima di essere mollato dal genio ingordo quanto ingrato, sovradimensionato in tutto, nell’arte, nella fama, nei soldi.
Anne Sinclair ha reagito con grande eleganza alla vicenda familiare. S’è separata da DSK con il quale condivideva molte cose, la politica, la cultura, la vita pubblica (lei giornalista televisiva di primo piano, direttrice ora di Huffington Post France) e la passione per certe soirées libertines. Ma lo ha fatto solo quando la storia è uscita fiori controllo, e rischiava di travolgere anche lei.
DSK resta più che mai convinto che contro di lui è stato orchestrato un complotto proprio mentre prendeva corpo la sua candidatura contro Nicolas Sarkozy nelle presidenziali del 2012. Ammette che i nemici non si sono spinti fino al punto di organizzare l’incontro con la Diallo, come pure venne scritto a suo tempo, ma Strauss-Kahn accusa le autorità di averlo lasciato languire nelle carceri americane. I media francesi hanno detto che era sorvegliato dai servizi segreti, però non sembra una gran novità. Ma chi ce l’aveva con lui? Sarko? O magari i suoi avversari dentro il Ps, numerosi e agguerritissimi? Facciamo un passo indietro per ripercorrere una carriera che non è certo ordinaria.
Strauss-Kahn è nato il 25 aprile 1949 a Neuilly-sur-Seine, ricco sobborgo appena a Nord di Parigi, ai confini con il Bois de Boulogne (che, incrocio del destino, avrebbe poi avuto come sindaco proprio Sarkozy). Per cogliere il milieu, basta ricordare che lì hanno vissuto Baudelaire e Gautier, Bernanos e Prevert, Maurois e Queneau. Oggi Gérard Depardieu e Bernard-Henry Levy, Jean Reno e Liliane Bettencourt, la donna più ricca del mondo, proprietaria de L’Oréal. Figlio della colta borghesia ebraica, Dominique cresce in Marocco (dove possiede una villa definita lussuosa, ma di classe). La famiglia torna in Europa, a Monaco e poi a Parigi nel 1960 in seguito al terremoto che distrugge Agadir. E il giovane Dominique segue il cursus honorum dell’élite progressista che passa per Sciences Po. Prova ad entrare all’Ena, ma fallisce. Laureato in legge, specializzato in economia, nella prestigiosa alta scuola d’amministrazione Strauss-Kahn entrerà in seguito come docente.
Intanto, scoppia il ’68. DSK è attivista nell’Unione degli studenti comunisti, poi passa alla sinistra socialista, quella alternativa e cogestionaria di Jean-Pierre Chevènement. Qui, nel Ceres, il Centro studi ricerche ed educazione socialista, incontra Lionel Jospin legandosi di una amicizia ad un tempo fraterna e competitiva (fino a quando nel 1997 entrambi saranno al governo della Francia con la Gauche plurielle). Mentre il giovane Lionel si consuma in diatribe politico-ideologiche, Dominique, pur non trascurando la dottrina (fonda la rivista Socialismo ed ebraismo) coltiva relazioni importanti (e talvolta pericolose) ben oltre la sinistra: Raymond Lévy patron della Renault, Louis Schweitzer che, dopo aver guidato il gabinetto di Fabius, rilancia l’industria automobilistica di stato (a lui si deve l’acquisizione di Nissan), il finanziere Vincent Bolloré che oggi in Italia si fa arbitro dei destini di Mediobanca e Generali. Il Circolo dell’Industria, da loro fondato a Bruxelles, diventa una delle lobby più attive e vivaci nel mondo dell’eurocrazia.
È in quel periodo che il fascinoso DSK conosce la stella più vivida della tv privata francese (Tf1 che fa capo al gruppo Bouygues, dichiaratamente gaullista): Anne Sinclair, titolare della rubrica politica di maggior successo, Sept sur Sept. Bruna dai morbidi tratti, volto da copertina su ogni magazine, a cominciare da quelli popolari, determinata e intelligente, è lei a proiettare il brillante socialista sugli altari della vera popolarità. La coppia più charmante della Francia politica (Sarko e Carla son di là da venire), conquista i salotti buoni. Quando Jospin, diventato primo ministro, nomina DSK alle Finanze, Anne lascia il suo programma tv, per non rischiare un conflitto d’interesse. Intanto, al governo, lui spopola preparando l’euro contro le lamentele gauchiste e litigando con Martine Aubry, la figlia di Jacques Delors, sua eterna avversaria, che si era impuntata sulle 35 ore.
Nel 1999 viene accusato di corruzione in due scandali finanziari diversi, uno riguarda favori e tangenti (secondo la pubblica accusa) che coinvolgono il Menef, una sorta di mutua studentesca; l’altro, ben più grande per le sue implicazioni addirittura internazionali, che coinvolge la Elf, il potentissimo ente petrolifero e un pezzo da novanta del socialismo francese, come Roland Dumas, ex ministro degli esteri, grande avvocato di Mitterrand. Gli affaire del Psf bilanciano quelli gaullisti che investono direttamente Chirac il quale, nel frattempo, è riuscito a farsi approvare l’immunità dal Consiglio costituzionale, con il voto determinante (indovinate un po’?) di Dumas. Strauss-Kahn lascia la poltrona, si difende, viene scagionato, cerca di risalire. Intanto, la gauche frana e comincia la sua traversata nel deserto. Ma è destino che non riesca a star lontano dagli scandali. E dalle gonnelle.
Al Fondo monetario è stato spinto dallo stesso Sarkozy; anzi, spintonato dicono i maligni. In realtà, il presidente apprezza le doti del suo potenziale avversario, tanto che ha reagito con amarezza all’affare di cuore spiattellato in prima pagina dal Wall Street Journal. Scoppia un amorazzo con Piroska Nagy, economista ungherese che lavora al Fondo. Il marito, Mario Blejer, economista argentino anche lui al Fmi, scopre la tresca e minaccia sfracelli. Si apre una inchiesta interna che finisce, inevitabilmente, sui giornali. DSK se la passa brutta, rischia il posto. Fa il contrito, vola a Parigi e celebra una scenetta di riappacificazione familiare con la moglie. Lui e lei finiscono di nuovo in copertina su Paris Match, ritratti mano nella mano. La Nagy viene cacciata. Strauss-Kahn ormai soprannominato Dominique Sultan, resta perché “non ha commesso alcun abuso”. Del resto, siamo nel bel mezzo della tempesta finanziaria.
A Davos, nel gennaio 2008, poco prima di scambiarsi il bacio galeotto con Piroska, DSK chiede “uno stimolo fiscale di natura globale”. Perde, purtroppo: gli interventi, i salvataggi, saranno locali, nazionali, e contraddittori. L’economia mondiale si dividerà in blocchi in competizione tra loro. Il laburista Gordon Brown, allora primo ministro britannico, tira fuori dal cilindro il G20 e Dominique Sultan, veloce di mente e ardito di cuore, si butta a pesce. In questo confuso sistema di ben oltre venti capi di stato e di governo, banchieri centrali, tecnocrati internazionali, il Fmi rappresenta il punto fermo e il braccio operativo. E DSK ci prova.
La missione che si è dato, entrando nell’austero palazzone di Washington, non era proprio quella? Quando è arrivato, ha trovato una istituzione in crisi di identità. Porta Olivier Blanchard uno dei maggiori economisti, francese con cattedra a Harvard, post-keynesiano non dogmatico. E lui, pezzo dopo pezzo, smonta il vecchio Washington consensus, il paradigma che aveva dominato per un quarto di secolo e che dal Fmi si è diffuso nel mondo intero a presidio della globalizzazione: più mercato, meno stato, stabilità monetaria, conti pubblici in ordine, austerità come cura contro gli eccessi fiscali. Il ripensamento prende corpo negli anni di DSK anche se i risultati diventano la nuova linea del Fondo solo nel 2012 sotto la direzione di Christine Lagarde, già ministro delle finanze ai tempi di Sarko, che ha continuato il percorso cominciato dal predecessore. Il G20, invece, affonda nella velleitaria inconsistenza di affidare una sorta di governo mondiale a paesi rivali i cui interessi sono in aperto contrasto.
Intelligenza sprecata sugli altari dell’arroganza e della libidine quella di Dominique Strauss-Kahn, umano, troppo umano, riformatore globale e libertino. Certo, molti lo hanno preceduto. Tra gli altri il suo mito politico, François Mitterrand. Ma erano altri tempi. Allora i servizi segreti coprivano il presidente, perché solo a lui dovevano rispondere, a lui e alla ragion di Stato. Oggi ci sono troppi clienti, tra i quali la stampa e la magistratura, poteri sempre più forti, vocianti e spesso straripanti. L’Italia non è che una variante talvolta esasperata di un processo più generale. Vizi privati e pubbliche virtù? Non può funzionare quando il privato è politico. Stupisce che non lo abbia capito proprio il modernista e modernizzatore DSK.