“Aspettando il semaforo”, la vera biografia di Jannacci

Il libro scritto dal figlio Paolo. Il meglio del cantautore milanese

Diavolo d’un Jannacci, imprevedibile fino all’ultimo. Non si è fatto acciuffare neanche in punto di morte. Quando è circolata la notizia della sua scomparsa, il mese scorso, era sera inoltrata. I giornali non hanno avuto tanto margine per modificare le prime pagine, in buona parte già composte. Così, il giorno dopo, è stato tutto un fiorire di titoli in taglio basso o – nel migliore dei casi – di foto un po’ più in alto, un po’ più al centro. Con articoli che si limitavano a fare un riassuntino della carriera in musica (è comprensibile, il tempo stringeva…). E già cominciava la tiritera sulla “Milano che non c’è più”, andata poi avanti per giorni (e destinata a rispuntare, ahinoi, ogni volta che si parlerà di Jannacci): una banalità, del genere di quelle che il Nostro aveva evitato tutta la vita.

Eppure Jannacci aveva avuto un ruolo centrale nella storia dello spettacolo italiano. Centrale ma sfuggente, indeterminato, difficile da catalogare. A partire dalla doppia qualifica di musicista e cardiochirurgo: «La musica per Enzo è sacra, come del resto lo è la medicina», scriveva il figlio Paolo Jannacci in Aspettando al semaforo (Mondadori 2011), una strana biografia che trasuda affetto e ammirazione per il genitore (i virgolettati che seguiranno vengono da questo libro).

Dalla musica si doveva partire, perché «come si fa a cadere nel pessimismo quando c’è la musica?». Ma esaurire l’attività di Jannacci in una sequela di brani, anche se importanti, è riduttivo. Tanto più che le incisioni, spesso, non gli rendono giustizia: le canzoni erano molto più vive grazie alla sua stramba presenza. Ecco, bisogna pensare alla sua presenza. Presenza fisica. In tanti contesti. 

Contava Milano, certo (prima regola per capire Jannacci: «Conoscere la topografia di Milano/Rogoredo/Forlanini»), ma non quella del passato: quella che Jannacci ha visto ogni giorno per 77 anni, girando per strada, nei bar, alla pasticceria Gattullo, facendo visite mediche. Contava pensarlo ragazzaccio del rock, negli anni Cinquanta, in combutta con Gaber e Celentano per diffondere in Italia suoni nuovi. Contava che avesse incrociato sul palco persino certi giganti del jazz («Theololius Monk deve sedicimila lire a Enzo. Ma questa è un’altra storia…»). Contavano le serate al Derby, per decenni il cabaret numero uno di Milano, dove ha tirato su alcune delle maschere più popolari dell’immaginario collettivo italiano degli ultimi quarant’anni – divi del calibro di Diego Abatantuono, Renato Pozzetto, Massimo Boldi. Oggi degenerati, per tanti versi: ma Jannacci scoprì la parte vitale del loro talento («Per noi sei stato tutto, anzi parecchio», hanno scherzato Gino&Michele in un necrologio. L’intero Zelig – altro degenerato – con regolare codazzo di milioni di spettatori, senza Jannacci non esisterebbe).

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Contava vederlo in tv, a colori ma meglio ancora in bianco e nero, a stravolgere gli sche(r)mi. Contava molto saperlo a ragionare e scrivere in compagnia di ingegni belli e stralunati come lui. Tipo Dario Fo – «che ieri come oggi è la legge. (…) Enzo nutre per Dario un rispetto viscerale». O Beppe Viola, l’amico fin dall’infanzia, co-autore di tanti pezzi senza che ne comparisse la firma, data la sua dipendenza dalla Rai: ruppero per questo. O Paolo Conte, altro genio col mestiere di riserva («al telefono si chiamano rispettivamente genio e poeta»). Contava che cantasse “Vincenzina e la fabbrica”, capolavoro di commozione e vita reale. E contava che conoscesse gli ospedali. E la fame.

Tanti aspetti, da prendere tutti insieme. Percorsi e persone diverse, che s’incrociavano solo grazie al cantante-dottore. Enzo Jannacci era un mondo, come ha scritto Paolo Madeddu su Rolling Stone (l’unico, un mese fa, a celebrarlo come si doveva). Al centro c’era il cantautore: il più originale d’Italia, e uno dei più profondi. Con una capacità quasi cinematografica di far stare una storia in poche strofe, specie nei primi brani in dialetto. Nessuno come lui sapeva inquadrare la dignità umana in una canzone. Un’inquadratura dal basso: sempre dalla parte degli ultimi, dei marginali. O a volte in soggettiva, con il cuore a pezzi, a osservare un’esistenza piena di controsensi. È stato amato e omaggiato dai più popolari artisti (sempre più ricchi e celebri di lui): da Mina, sua coetanea, a Vasco e Ligabue. Perchè in fondo la sensibilità conta più di ogni altra cosa. E in Jannacci suonava davvero unica, pure se collaborava volentieri con altri autori.

Ma c’era anche l’animale da palcoscenico, inconsueto quanto le sue armonie: con tante idee in testa, da «esprimere tutte insieme». In scena Jannacci dava libero sfogo a tutta la surrealtà che gli tagliava l’anima, facendogli sfarfugliare tirate solo in apparenza prive di senso. E fu pure un bravo attore. Che però, racconta il figlio, odiava recitare. Ma ha lasciato tracce notevoli: un film con Marco Ferreri ad esempio (L’Udienza, 1971), o la messa in scena di Aspettando Godot con Giorgio Gaber, dove interpretava la parte di Estragone, secondo il figlio «con una naturalezza disarmante»: «Enzo non recitava il copione, lui era Estragone». Perché succedeva?

«Sensibilità e umiltà», spiega Paolo Jannacci, che lo facevano arrivare all’amor fati, «e cioè sopportare l’esistenza grazie a una adesione tragica ad essa. L’esistenza è voluta è desiderata sin nei minimi particolari». Eccolo, il filo rosso che lega il barbùn che portava i scarp del tennis all’Estragone di Beckett: la messa a nudo dell’umanità. «Lui stava testimoniando la precarietà dell’essere umano, ma nei suoi occhi vedevo quella scintilla», conclude Paolo. Sì, valeva la pena di spendere una vita «per raccontare mezza fetta di pane»: una cosa che riguarda tutti, talmente semplice che ci voleva un’intelligenza complicata come quella di Jannacci per riderne senza mettere da parte le note dolenti. 

Citazioni dal libro “Aspettando al semaforo. L’unica biografia di Enzo Jannacci che racconti qualcosa di vero”, 2011. 

Vegeteriano
«Io sono vegetariano, quasi quasi non mangio neanche l’erba, io, perché c’è dentro tutto un filtrato, c’è dentro tutta una sezione che riguarda la vita».

Le assi del palco
«Sì, le assi di legno alle quali ci si può affezionare, alle quali a un certo punto si diventa un po’ schiavi, no?»

Saltimbanchi si muore
«Che poi, è vero, saltimbanchi si diventa, no? Però tutti quelli come me o smettono, come ho fatto io, o saltimbanchi si muore. Si rimane con questa illusione di stare indefinitamente sulle assi del palcoscenico e parlare apparentemente a vanvera: perchè io dicevo delle cose che mi sembravano importanti, delle cose interessanti e la gente per la maggior parte delle volte ha ascoltato, però poi ti rendi conto che molti hanno creduto che tu dicessi delle fanfaluche, dicessi delle stupidaggini…»

Affogare all’Idroscalo
«Guardi, mi creda, è una cosa brutta. A un certo punto son tornato giù, ho detto: “Vabé, ma io sto giù, cosa mi interessa a me di tornar su?”»

I piedi
«La storia dei piedi e le scarpe sono sempre rimaste la mia…come si dice…prerogativa. Guardavo i piedi, guardavo le scarpe. Anche adesso io con i piedi ci parlo. Cioè… i piedi ci parlano e io sto ad ascoltare, ma viene da quei momenti là…»

Milano
«Milano è un tram, è il tram» .

Le tre cose che mi piacciono di più di Milano
Il teatrino Gerolamo: «È una specie di piccola Scala, dove ci sono dentro massimo cento persone, centocinquanta persone.»

L’aeroporto Forlanini: «Adesso è un aeroporto di grido, dove tutti gridano e non si sa perché». 

Le case popolari, le case di ringhiera: «Adesso sono quasi sparite perché… non sono… sa, va molto alla moda; adesso nelle case di ringhiera fanno le sfilate…».

Perché medico
«Per passione. Perché…perché vuole trovarsi a disposizione degli altri quando questi hanno bisogno. Si sente trasportato alla cura della persona, dell’anima, della testa, delle vicende sentimentali, vicende dei suoi organi interni ed esterni, non so…naso, orecchie, boh quello che vuole lei…»

Il Milan
«Il Milan è un…è il battito cardiaco stesso, il Milan…se uno ci crede davvero… (…) si sente questo fragore immane quando uno entra in campo…perché sente che gli sobbalzano tutte le vene, le arterie, il cuore che pulsa tre volte tanto, la testa che si imballona su tutta, quando… evidentemente non sei solo tu che percepisci questa cosa qui, ma sono anche tutti gli altri. Minimo sono sessantamila».

Il motorino
«Sì, parlo col motorino, sovente parlo col motorino… (…) si può chiedere qualunque cosa a un motorino, eh…saranno passati dodici anni, lui sente…o, se non sente, capisce dal movimento della voce, da come….non ho le marce ma faccio con la bocca, come se avessi le marce: ahmmm, ahmmm ahmmm ahmmm… (…) questo motorino che c’ho, io non gli ho mai fatto niente, a parte il fatto che è truccato da tutte le parti…»

La Seconda guerra mondiale
«Non è stata divertente. Non è stata divertente perché…veder le persone che muiono per niente, e vedere le espressioni del pre morte e del post mortem è terrificante. Perchè già non si sa qual è il destino nostro, quando finiremo di vivere questa sporca vita, perchè la vita è sporca…e la guerraè più sporca perché trancia la vita».

“Romanzo Popolare” (film di Monicelli)
«C’era Tognazzi che doveva fare…era il protagonista maschile. (…) Che ha mostrato di divertirsi acerte battute. Noi [Jannacci e Beppe Viola, ndr] le scrivevamo sui bigliettini la mattina e lui le diceva. Si divertiva e…ha avuto successo e poco per volta il film si è fatto sui bigliettini.(…) Monicelli era molto contento, anche se tutti avevano deciso di mollare perché credevano…avevano deciso che sarebbe finita in un disastro totale».

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