Insulti, accuse, litigi. Dalla Guerra dei Roses alla guerra degli economisti. I protagonisti non sono Michael Douglas e Kathleen Turner, bensì Kenneth Rogoff, Carmen Reinhart e Paul Krugman. Eppure le modalità sono analoghe. Tutta colpa dell’austerity. E dopo le prime violente puntate, si attendono le prossime. Una lotta che però non è funzionale a risolvere il maggiore dei dilemmi odierni: come conciliare l’attuale modello di sviluppo delle economie occidentali con un mondo che è totalmente mutato.
Tutto comincia quando uno studio di Rogoff e Reinhart viene messo in discussione. Nello studio “Growth in a Time of Debt”, pubblicato nel 2010, c’è un errore. Un peccato di excel, che però sembra essere destinato a rivoluzionare la storia a venire. Secondo Rogoff e Reinhart se il debito pubblico di un Paese sale oltre il 90% del Pil, la crescita economica di quel Paese sarà nulla o negativa. È il preludio a ciò che viene concepito come necessario (e doveroso) per tutte le economie che presentano queste peculiarità, il consolidamento fiscale. Eppure, come ricordato da tre economisti – Thomas Herndon, Micheal Ash e Robert Pollins – «il tasso di crescita medio del Pil di Paesi che hanno un rapporto debito/PIL maggiore del 90% è in realtà 2,2% e non -0,1% come pubblicato da Reinhart e Rogoff». Da oltre un mese impazza la discussione in ambito accademico. C’è chi difende il lavoro di Rogoff e Reinhart, come Matthew O’Brien su The Atlantic, ma c’è anche chi accusa i due economisti di essere quasi dei mezzi ciarlatani. Fra questi, il premio Nobel Krugman.
La dialettica è violenta. La discussione elevata. Le idee poche. Krugman accusa i due economisti di essersi sbagliati e di aver indotto la comunità internazionale a introdurre misure di austerity sempre più spinte. Scrive il premio Nobel che è diverso affermare che «Paesi con il debito sopra al 90% del Pil tendono ad avere una crescita più lenta» invece che questi Paesi potrebbero avere un crollo brusco della crescita. Ed è su questo punto che Rogoff e Reinhart difendono le loro posizioni, ricordando che nessuno di loro ha mai pensato di consigliare alle istituzioni internazionali l’introduzione di un consolidamento fiscale troppo spinto. Smaccatamente politico, tendenzioso, il Paul Krugman di oggi è ben diverso dal brillante economista neo-keynesiano il cui testo di economia internazionale ha formato migliaia di studenti. È questo ciò che in realtà affermano Reinhart e Rogoff. E forse con ragione.
Al di là della discussione sull’austerity e sui suoi possibili effetti recessivi, quello che manca è un dibattito serio su dove vuole andare il mondo. Come ha scritto Ian Bremmer, presidente dell’Eurasia Group, questa è l’epoca del G-Zero. Un mondo senza padroni, senza una potenza dominante. Un mondo nel quale la globalizzazione ha ridotto le distanze fra Occidente e Asia, ma non solo. Gli Stati Uniti hanno perso la sfida produttiva globale e Cina, ma anche Brasile, India, Messico, Indonesia, Corea del Sud, Malaysia, Thailandia, Vietnam e Turchia stanno colpendo nel cuore l’America produttiva, che negli ultimi anni dopo il crac Lehman Brothers e il crollo del mercato immobiliare ha dovuto sostenere la propria crescita economica tramite misure espansive, le varie tornate di Quantitative easing della Federal Reserve.
Questo genere di approccio monetario, impossibile da applicare nell’eurozona, è stato adottato anche dalla Bank of England e, più recentemente, dalla Bank of Japan. Se gli effetti di breve periodo possono essere positivi, complice l’espansione della base monetaria, sono difficili da comprendere quelli sul lungo termine. Oltre a un problema legato all’inflazione, ve n’è uno legato alle aspettative degli investitori. Una volta finita la droga delle banche centrali di mezzo mondo, come potranno reagire gli operatori? E soprattutto, cosa ne sarà di un mondo economico il cui baricentro di sta spostando sempre di più, con una frammentazione che è tutto tranne sinonimo di stabilità?
Nel 2011, provando a immaginare il mondo nel 2050, l’economista di UBS George Magnus ha ipotizzato che esisteranno diverse macroaree economiche. Ognuna di queste con diverse caratteristiche uniche, ma difficilmente complementari con le altre. È per questo che potrebbero esserci scontri commerciali, guerre valutarie e squilibri macroeconomici sempre più spinti. Del resto, come ribadito anche da Bremmer, già oggi «non esistono più nazioni capaci di fornire pasti gratis». Ma allo stesso tempo, le economie sviluppate, che stanno vivendo un lento ma inesorabile declino, non vorranno lasciare le posizioni guadagnate in virtù delle economie emergenti.
Discutere dell’austerity basandosi su discussioni su fogli di excel o errori sui moltiplicatori fiscali non sposta di una virgola il problema originario. Come può il mondo continuare a crescere con lo stesso ritmo che aveva prima del 2006? Da un lato ci sono le economie sviluppate, che hanno sofferto per il crollo del castello di carte su cui erano poggiate. O meglio, hanno compreso che il modello di sviluppo finora utilizzato non può più essere sostenibile nel lungo termine. I baby boomers e i millenials sono in lotta da ormai cinque anni, proprio perché le risorse a disposizione sono sempre di meno. La crescita delle esigenze di vita quotidiane, unite a un assorbimento energetico sempre maggiore e a un progresso biomedico capace di aumentare la speranza di vita degli esseri umani, sta riducendo la capacità di azione dei governi. Non è un caso che, mentre i complottisti di mezzo mondo guardano alla finanza come il centro di tutti i mali, la vera preoccupazione degli economisti più lungimiranti è la sostenibilità delle risorse in rapporto alla demografia. In altre parole, come continuare a crescere senza che vi sia una saturazione del sistema.
I sistemi previdenziali moderni, come ha ripetuto più volte anche il presidente della Banca centrale europea (Bce) Mario Draghi, sono inadeguati alle sfide che le economie sviluppate dovranno affrontare. Costano troppo, rendono poco. Allo stesso tempo, le economie emergenti hanno iniziato a rallentare la propria corsa proprio in virtù dell’introduzione di maggiori diritti all’interno dei singoli sistemi economici, oltre che per il calo della domanda mondiale di beni. Cambiamenti come quelli che sono necessari all’area euro, e di riflesso anche a Stati Uniti e mercati emergenti, non sono facili da applicare. Riforme di questa entità richiedono anni e sacrifici condivisi. È per questo che il percorso intrapreso non deve essere fermato, ma portato avanti passo dopo passo.
Qualunque sia la posizione di Rogoff, Reinhart e Krugman quando parlano dell’austerity, il punto cruciale è che, volenti o nolenti, il consolidamento fiscale della zona euro, ma anche degli Stati Uniti, deve continuare. O, nei casi in cui questo processo non sia iniziato, deve cominciare quanto prima. Non si tratta di se, ma di quando. Ma la vera questione di fondo rimane. Riuscirà il mondo a trovare un altro modello di crescita sostenibile?