Banca Carige, cercasi redditività disperatamente

Le difficoltà dell’istituto ligure

Aggiornamento 26.10.2014

Sembra in dirittura d’arrivo la nomina di Piero Montani come nuovo amministratore delegato di Banca Carige. La possibile nomina di Montani, che proviene dalla Banca popolare di Milano, apre la corsa alla sua successione in Piazza Meda. Montani ha fama e curriculum di gran risanatore ed è considerato vicino a Banca d’Italia. La situazione dell’istituto di credito ligure nella nostra analisi.

L’aumento di capitale “light” si farà, sarà da 100 milioni di euro, e la fondazione (principale azionista al 47% della banca) si diluirà al 40 per cento. Quanto basta per continuare a dire la sua sul management, senza mettere mano al portafoglio. È questo lo schema che trapela a margine della presentazione dei conti al primo trimestre di Carige, istituto ligure impegnato in una complessa opera di razionalizzazione. In vendita ci sono alcuni immobili, Carige Sgr, il 20% dell’Autostrada dei Fiori, e soprattutto le attività assicurative nel ramo danni e vita, sulle quali il top management conta di aprire la data room a metà giugno, dopo una due diligence quadripartita affidata a Towers Watson per le riserve, a Prelios per gli immobili, ad ATKerney per gli aspetti legati al business e ad Ernst & Young per quelli fiscali. Per il direttore generale Ennio La Monica, la presenza sul mercato degli asset assicurativi che l’Antitrust ha chiesto di vendere a Unipol nell’ambito dell’operazione Fonsai non è un problema, anzi è funzionale ad attirare gli investitori sul mercato italiano.

Come è noto, Bankitalia ha chiesto un rafforzamento da 800 milioni, mentre Consob ha sollevato dubbi sui benefici da 750 milioni derivanti dallo spostamento degli sportelli sotto l’ombrello Carige Italia. Reperire capitali freschi sul mercato non solo – come ha affermato nel corso dell’ultima assemblea il presidente Giovanni Berneschi – significa «una bastonata per i piccoli azionisti» ma rappresenta una formale sfiducia nei confronti del management. E nella città della Lanterna, per ora, si cerca di mantenere lo status quo. Nonostante le riunioni del consiglio d’amministrazione siano a dir poco accese, per quanto si tratti di «normale dialettica con la fondazione», come dice a Linkiesta il dg La Monica, che oggi a Palazzo Giureconsulti a Milano ha illustrato i risultati relativi al primo trimestre dell’anno, provando a spiegare perché chi paragona la situazione dell’istituto genovese al Monte dei Paschi di Siena si sbaglia di grosso. 

Attenendosi soltanto alla lettura bilancio, la situazione si potrebbe sintetizzare così: cercasi redditività disperatamente. A marzo 2013 l’utile è salito del 7,4% anno su anno a quota 48,6 milioni, ma nel 2011 i profitti avevano toccato i 186 milioni di euro. La raccolta diretta è aumentata del 2,6% a 28,2 miliardi sul marzo 2012, ma la raccolta indiretta in regime amministrato si è contratta del 16,4% a 8,2 miliardi. Gli impieghi lordi sono saliti del 9% a 30,5 miliardi, ma il balzo è spiegato dalla crescita dei prestiti concessi alla clientela istituzionale (+75% a 5 miliardi) mentre il canale retail è sostanzialmente fermo. L’istituto genovese, oltretutto, sta bruciando cassa, come dimostra la contrazione del 30,3% delle disponibilità liquide, a quota 262,4 milioni, da gennaio a marzo. E di fieno in cascina non ce n’è, perché il payout, cioè la percentuale dell’utile destinata ai dividendi, è stata molto elevata negli anni passati: 69% nel 2009, 71% nel 2010 e 67% nel 2011.

Significa che su 10 euro di utili, 7 sono andati alla Fondazione e 3 sono stati accantonati, a discapito della patrimonializzazione (il Tier 1 è ora al 9,6 per cento). Per questo si fa leva sull’altra componente del Tier 1, le riserve. È così spiegabile la valutazione “aggressiva” della partecipazione nel capitale della Banca d’Italia, che nel 2011 ha portato un beneficio di 59 milioni a patrimonio netto (sotto la voce riserve da valutazione), stando alla relazione sulla gestione (a pag 586). Nel 2012, la partecipazione del 4,03% nel
capitale di Banca d’Italia, è stata invece contabilizzata per 892,2 milioni. Secondo quanto si legge sul bilancio, «tale valore deriva dalla valutazione al fair value – utilizzando il  patrimonio netto quale proxy attendibile del fair value – effettuata sulla base dei dati di bilancio  della Banca d’Italia al 31/12/2011 (ultimo bilancio approvato)». Tuttavia, «gli effetti di tale valutazione al fair value sono sterilizzati da una riserva di valutazione dello stesso importo, al netto dell’imposizione fiscale differita». La quale è trasformabile in credito d’imposta se la società, come è accaduto per Carige, chiude il bilancio in perdita.

Al di là dell’aspetto contabile, rimangono alcuni punti interrogativi. Il primo è l’aumento di 600 milioni delle sofferenze (i crediti irrecuperabili, ndr), da 1,4 a 2 miliardi nel giro di un anno. Dovuto, ha riferito La Monica, all’introduzione da parte della Banca d’Italia del criterio del pronto realizzo sui crediti immobiliari. In generale, i crediti deteriorati lordi sono cresciuti del 21,6% da 2,8 a 3,4 miliardi nell’arco di dodici mesi, con un tasso di copertura del 49,8% inferiore al tasso medio del sistema bancario (54,7%, dati Bankitalia). C’è poi la discrasia tra l’incremento del margine di intermediazione del 5,6% a 313,4 milioni, e la contrazione del margine d’interesse del 27,5% a 151,5 milioni nell’arco di un anno. La spiegazione sta nella contrazione dell’Euribor, costata ben 97,8 milioni di euro. Troppi mutui concessi a tasso variabile, alla ricerca di un’ottimizzazione contabile? Non è dato sapere. Infine, i 40 milioni di beneficio dalla valutazione al fair value – ai sensi del principio contabile Ias 13 – delle obbligazioni dell’istituto negoziate sul mercato. Magie della contabilità: se un bond è a bilancio a 100 euro, ma sul mercato vale 95, quei 5 euro di differenza hanno un impatto positivo a conto economico. Il beneficio è però una tantum. 

Ancora da sciogliere il nodo delle 667 filiali, che è costato il cartellino giallo di Consob. Nelle intenzioni del management, l’obiettivo è «una presenza meno capillare» con benefici nell’ordine di 30 milioni l’anno. Eppure nel piano industriale al 2014 si parla di ben 48 nuove aperture.