Bangladesh, dopo i morti il dilemma del paese “T-shirt”

Un mese dopo la strage del Rana Plaza

Millecentoventisette. Le ricerche si sono fermate qui, la contabilità si è arrestata a questo spaventoso numero di vittime, certificando la più grande tragedia industriale della storia del Bangladesh. Inutile proseguire, impossibile ripetere il miracolo del 14 maggio, quando una donna fu trovata viva sotto le macerie, diciassette giorni dopo il crollo dell’edificio Rana Plaza, il 24 aprile, a Savar, periferia di Dacca. Un immobile fatiscente di otto piani, di cui tre abusivi, in cui lavoravano migliaia di persone, in gran parte donne, impegnate nel fabbricare t-shirt, camicie, jeans, poi venduti sui mercati occidentali con il sigillo di marchi noti al grande pubblico.

La storia del tessile in Bangladesh è costellata di incidenti mortali. Trentuno, in gran parte incendi, dall’inizio degli anni Novanta, con un bilancio di circa 1700 morti. All’origine, sempre gli stessi motivi: sicurezza carente, soprattutto in caso di evacuazione, sindacati deboli, proprietari onnipotenti, spesso legati alla politica. Trenta tra i più grandi titolari di fabbriche tessili siedono al Parlamento di Dacca, lo stesso patron del Rana Plaza era uno dei leader locali del partito al potere, l’Awami League. Questo spiega perché i subappalti vadano a finire ai soliti noti, e soprattutto perché i controlli chiudano spesso un occhio, in un Paese che occupa il 144esimo posto nella classifiche internazionali sulla corruzione.

Nella nuova economia globalizzata il Bangladesh si è specializzato nell’industria dell’abbigliamento, grazie a una manodopera tanto abbondante quanto sottopagata. Nel 2009 è diventato il secondo esportatore mondiale del settore, dopo la Cina. Grazie all’iniziativa «Tutto tranne le armi», lanciata dall’Unione Europea per favorire l’export dei Paesi meno sviluppati, il tessile made in Bangladesh ha invaso i banchi e gli scaffali del vecchio continente, tant’è che nel 2012 il Paese ha superato la Turchia per diventare il secondo fornitore dell’Europa, dietro l’immancabile Cina. Adesso Bruxelles si trova di fronte al più classico dei dilemmi: sospendere questi privilegi, danneggiando ulteriormente la debole economia bangladese, oppure accettare un sistema che paga i lavoratori del tessile trentotto dollari al mese e fa di Dacca il fanalino di coda della classifica sui salari minimi stilata nel 2010 dalla World Bank? 

La tragedia di Savar, per le sue proporzioni, ha comunque mosso le acque della politica locale e ha spinto i big mondiali del settore ad intervenire rapidamente per evitare giganteschi danni d’immagine. Il governo bangladese, tramite il ministero per il Tessile, ha fatto sapere di avere costituito una commissione per il «nuovo salario minimo», composta da proprietari, rappresentanti dei lavoratori e ministri, incaricata di presentare entro tre mesi una proposta di legge in materia.

Al tempo stesso, i grandi marchi europei dell’abbigliamento, dall’azienda svedese H&m – primo acquirente di abiti in Bangladesh – alla spagnola Inditex, che controlla la catena Zara, dall’olandese C&A alle britanniche Tesco, Marks&Spencer e Primark, dall’italiana Benetton a un’altra nota compagnia iberica, Mango, hanno firmato un protocollo d’intesa col governo per garantire la sicurezza sui luoghi di lavoro. L’accordo è stato promosso dai sindacati internazionali IndustriaAll e Uni Global, che rappresentano in totale circa settanta milioni di lavoratori di 140 Paesi, con il coordinamento dell’Organizzazione internazionale per il lavoro.

Non si tratta di un dettagliato piano operativo, ma di una serie di principi guida. L’intesa prevede infatti, per i prossimi cinque anni, l’adozione di generiche misure – ispezioni indipendenti, report pubblici, progetti di training – destinate ad accrescere la solidità strutturale degli edifici.

Gli americani, però, si sono smarcati. Ad eccezione della Pvh, gruppo a cui fanno capo i marchi Calvin Klein e Tommy Hilfiger, si sono rifiutati di firmare il protocollo. La Gap ha posto obiezioni di carattere legale. La Wal-Mart, il più grande rivenditore del pianeta, che ha contratti di outsourcing con 279 fabbriche del Bangladesh, ha tacciato il piano di inconcludenza e ha annunciato un proprio programma di ispezioni, più rapide ed efficaci. L’azienda è finita sotto accusa, soprattutto dopo che il Bangladesh center for worker solidarity ha fornito al New York times le foto di alcuni documenti che dimostrerebbero la presenza di un contractor canadese della Wal Mart al quinto piano del Rana Plaza.

L’accordo firmato dagli europei copre un raggio più ampio di questioni, ma la sua applicazione è decisamente più lenta. Probabilmente non c’è alcuna rivoluzione alle porte, eppure la tragedia ha portato a maggiori controlli da parte delle autorità locali e ha spinto i lavoratori a reclamare meno timidamente i propri diritti.

Come ha scritto il giornalista americano Adam Davidson, ogni Paese ha vissuto una “fase T-shirt”, un periodo economico in cui un numero significativo di contadini poveri ha deciso di abbandonare una terra improduttiva per accettare bassi salari e condizioni di lavoro disagiate nell’industria tessile. È successo alla Gran Bretagna nel XVIII secolo, al New England nel XIX, al Sud degli Stati Uniti nel primo Novecento, a molti Paesi asiatici nella seconda metà del secolo. Cambogia, Vietnam, Sri Lanka e India stanno superando questa fase per abbracciare uno sviluppo economico più ampio, il Bangladesh no. Certo, a Dacca, rispetto a trent’anni fa, il tasso di povertà è calato dal 70 al 40 per cento, ma i redditi non sono cresciuti a sufficienza. In Cambogia, per avere un termine di paragone, il salario medio è di 78 euro al mese, in sostanza il doppio. Difatti le T-shirt made in Cambodia costano agli importatori occidentali 2,50 dollari, 82 centesimi in più rispetto a quelle del Bangladesh.

Alcuni osservatori sostengono che, in caso di consistenti aumenti salariali, i grandi marchi si potrebbero spostare altrove, ma in Asia non ci sono grosse alternative, fatta eccezione per la Birmania. La concorrenza, semmai, potrebbe venire dall’Africa: Nigeria, Kenya, Ghana. Secondo altri, invece, la tragedia del Rana Plaza potrebbe portare acqua al mulino del fair trade, finora diffuso soprattutto in ambito alimentare.
Ormai negli scaffali dei supermercati occidentali è frequente trovare caffè, bevande e altri prodotti ispirati a concetti di sostenibilità sociale e ambientale.

Recenti ricerche, svolte, ad esempio, dal Massachusetts institute of technology, indicano però come i gusti dei consumatori si stiano evolvendo, per cui simili standard vengono richiesti anche in altri ambiti. È vero che l’abbigliamento low cost ha invaso l’Occidente – il patron di Zara, Amancio Ortega, è il terzo uomo più ricco del mondo – e che questo tipo di industria è fondata sul basso costo del lavoro.

Ma altre società, soprattutto quelle che vendono online, sono molto avanti sulla strada della trasparenza. Alcuni esempi? Everlane, che lavora con produttori selezionati da ong locali, oppure Honest By. PraNA è diventa la prima azienda di abbigliamento americano ad utilizzare l’etichetta fair trade e i grandi marchi, tra cui Nike, Wal Mart e Gap, hanno lanciato tempo fa l’idea di un indice di sostenibilità, ribattezzato Higg Index. Con la catastrofe di Savar l’idea di una certificazione Fair per i capi venduti in Occidente ha ripreso vigore. Con qualche endorsement di spicco, come quello della cancelliera tedesca Angela Merkel.

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