Bankitalia: la cassaforte del potere, nonostante tutto

Gli uomini di Palazzo Koch governano i fili dell’economia italiana

Dicono: la Banca d’Italia non è più quella di una volta, non stampa moneta, le banche sfuggono al suo controllo irretite dalla malia del mercato, e anche il mitico centro studi fatica a tener dietro all’alluvione di dati, statistiche, analisi e previsioni. Dicono il vero.

Eppure sono tutti lì, puntuali, alle 10,30, in via Nazionale, nel salone dell’assemblea, come ogni 31 maggio, ad ascoltare le considerazioni finali del governatore. Banchieri, industriali, politici, accademici, giornalisti, si fanno tirare gli orecchi, bacchettare persino, ma sanno che ancor oggi in giro per l’Italia non c’è nulla di meglio. La riserva della Repubblica è nel palazzo dell’architetto Gaetano Koch, quel fortilizio in stile neo-rinascimentale così di moda nel regno umbertino, che ha resistito a tempeste e regimi: a Giolitti e a Mussolini, a Kappler (con 127 tonnellate d’oro in meno) e al generale Clark, al sistema democristiano e al craxismo, all’ulivismo prodiano e al berlusconismo.
La Banca d’Italia è rimasta sempre in piedi. Non perché non sia stata attraversata dalle passioni secolari o perché abbia mantenuto la sdegnosa distanza dei tecnici nei confronti dei politici. Semmai, esattamente al contrario, è lei ad aver influenzato la politica con le sue idee e con i suoi uomini. Anche escludendo Luigi Einaudi che resta un’eccezione, da Guido Carli in poi è stato un flusso pressoché continuo: Lamberto Dini, Paolo Savona, Carlo Azeglio Ciampi, Tommaso Padoa Schioppa, fino ad oggi, con Fabrizio Saccomanni al ministero dell’Economia e a Daniele Franco Ragioniere generale dello Stato.

Cambiano i tempi, gli stili, gli uomini. Carli passava diritto come un fuso, le braccia tese e gli occhi bassi senza guardare in faccia a nessuno. Paolo Baffi sospendeva il cambio della lira comunicandolo con una telefonata al presidente del Consiglio. Ciampi con piglio meno imperioso e non senza aver ingoiato un bel po’ di rospi, rifiutava la «lira pesante» di Craxi. Antonio Fazio negava a Romano Prodi la riduzione dei tassi d’interesse per battere l’inflazione. Ignazio Visco è persona alla mano e Saccomanni un pozzo di simpatia. Nessuno di loro cala dall’alto esperienza e sapienza. E poi, oggi c’è Mario Draghi alla Bce che fa da tutore e in qualche modo da grande fratello (visto che le presse dell’euro sono nelle sue mani). Tuttavia, il fortino di palazzo Koch resta un centro di potere tra i più importanti e la Banca d’Italia una istituzione chiave del paese. A cominciare dal fatto che è ancora la banca delle banche, perché il progetto di riportarla alle dipendenze dirette del Tesoro, come previsto dalla legge sul risparmio del 2006, non è stato mai realizzato.

Con Draghi è finita l’era delle autorizzazioni preventive: le aziende di credito si comportano come imprese private, si sposano, divorziano, decidono la loro strategia senza il permesso ex ante di via Nazionale. Viva il mercato. Poi arriva il Monte dei Paschi e vuole comprarsi Antonveneta pagandola 9 miliardi (tre di troppo secondo le stime) senza avere un euro. La Banca d’Italia chiede di aumentare il capitale e i vertici ricorrono a mezzucci da dozzina pasticciando con i derivati e spostando i debiti sulla Fondazione. Qui non c’entra la banda del 5% o la supposta tangente. E’ l’operazione in sé che non stava in piedi e molti sollevarono anche allora seri dubbi.

Con le nuove regole, Draghi non poteva più dire quel matrimonio non s’ha da fare. E tuttavia il crac della terza banca del paese solleva quanto meno qualche dubbio sulla bontà di quelle regole, soprattutto nel bel mezzo della crisi in cui ci troviamo, mentre le banche vengono nazionalizzate nella patria della signora Thatcher o comunque salvate dai governi (in Germania, in Francia, negli Stati Uniti persino).

Gli ispettori non hanno visto, hanno chiuso gli occhi, non hanno capito e sono stati facilmente imbrogliati dai magneti senesi? E Draghi ha cercato forse di lavare i panni sporchi in famiglia? Domande, sospetti, insinuazioni, accuse persino. Se si escludono dolo o connivenza, forse la spiegazione più semplice rivela una inadeguatezza rispetto alle diavolerie che il mercato mette in campo e che finanzieri furbi e truffaldini sanno sfruttare al meglio. È vero, anche negli Usa dove la Federal Reserve è più attrezzata (soprattutto a New York), non sono riusciti a capire quell’incredibile schema Ponzi che partiva dai mutui subprime. La lezione americana, però, spinge sempre più verso un modus operandi in equipe con la collaborazione di tutte le diverse agenzie e autorità che debbono sorvegliare la finanza, a cominciare dal cane da guardia della borsa.

Visco con i banchieri non è stato tenero. Il benign neglect è finito, torna una moral suasion rafforzata (per dirla in gergo). Il governatore insiste che bisogna aumentare il capitale. Anzi, ha chiesto di svalutare gli immobili a garanzia, fare pulizia nei bilanci, mettere in conto le perdite, calcolare gli investimenti al valore effettivo, non quello di libro; sollevando forti obiezioni (persino a la Repubblica da sempre benevola con Bankitalia) e provocando la discesa dei prezzi. Da un lato si rafforzano le banche dall’altro si indebolisce il mercato, un dilemma irrisolto. Mediobanca ha proposto di creare un veicolo speciale per assorbire il marcio delle banche. Ha trovato accoglienza tiepida (per usare un eufemismo), eppure ci vuole un intervento di natura straordinaria. Non bastano più le lavate di capo sulla stretta creditizia, sulla resistenza ottusa ai messaggi che arrivano dalla Bce. La banca centrale ha perso il controllo della politica monetaria in periferia, o meglio alla base della piramide creditizia, per cui gli impulsi che partono dal vertice non arrivano fino in fondo. È un problema enorme, forse il problema numero uno di questa crisi.

Grande attesa c’è anche per l’analisi della congiuntura. Molte cose si sanno già e non sono positive. L’Ocse ha peggiorato di nuovo le prospettive per quest’anno e la crescita, minima minima, si sposta al 2014. Tuttavia, l’analisi della Banca d’Italia resta la più accurata. Negli ultimi anni nessuna delle previsioni del governo o di istituzioni esterne si è rivelata corretta. Il margine di errore è massimo quando si tratta di qualche decimale, eppure il fumo statistico può provocare molti guai. Per esempio, può portare di nuovo il deficit pubblico sopra la soglia fatale del tre per cento. Può sballare le previsioni sulle entrate fiscali e quelle sulle spese. In sostanza, può rendere inutile il DEF, il documento sul quale si costruire la legge finanziaria. Ecco perché Saccomanni ha deciso di affidare a un uomo di palazzo Koch il sancta sanctorum, che racchiude i segreti del bilancio pubblico.

Quel che dice il governatore, dunque, resta un punto di riferimento per la politica e per l’economia. Visco lamenta l’eccesso di tasse e la timidezza nel ridurre le spese. Bacchetta anche le imprese pronte a chiedere e a lamentarsi, ma dal braccino corto corto quando si tratta di dare in termini di investimenti. Lancia segnali non solo a palazzo Chigi, ma a chi governa tutte le istituzioni del paese. Un appuntamento decisivo sarà il negoziato sugli ulteriori passi avanti verso l’integrazione della politica fiscale europea e la riforma dei trattati: va bene quel che propone la Germania, l’Italia è pronta, cosa ne pensa il governo? Il triangolo Draghi-Visco-Saccomanni potrà dare anche in questo nuovo negoziato sulla riforma dei trattati un contributo prezioso. Facendo politica, comme il faut.

Twitter: @scingolo

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