Caselli: Sentenza Andreotti? Il popolo è stato truffato

Esce il Def, monumentale enciclopedia della mafia

TORINO – «Sulla sentenza Andreotti il popolo italiano è stato truffato». Il procuratore  della Repubblica di Torino Gian Carlo Caselli (a Palermo negli anni caldi dal 1993 al 1999) va giù duro. «Ormai è opinione diffusa che Andreotti sia stato assolto e perseguitato da innocente, e che abbia dovuto subire oltre dieci anni di calvario giudiziario. Le sentenze vengono pronunziate in nome del popolo italiano e spiegate nelle motivazioni affinché il popolo italiano tutto possa capirne le ragioni. Ma con un pessimo esempio di informazione giornalistica e un cattivissimo servizio reso alla democrazia e alla storia, la verità è stata stravolta. Si ripete che Andreotti è stato assolto ed è stato vittima di malagiustizia. Ma è falso. Fino al 1980 è stato giudicato colpevole. Con prove sicure. Come due incontri con il boss Stefano Bontate, che gli parlò dell’omicidio di Piersanti Mattarella, un democristiano onestissimo, senza che Andreotti rivelasse mai niente, finendo per rafforzare la mafia. Il reato “è stato commesso”. Per saperlo con certezza non serve leggere le mille pagine di motivazioni, bastano le dieci righe del dispositivo della sentenza. Anche perché la difesa di Andreotti ricorse. Se fosse stato assolto, come si racconta ormai nel discorso comune, non avrebbe mai fatto ricorso. È illogico».

Caselli parla alla presentazione del Dem, il monumentale Dizionario enciclopedico delle mafie in Italia (a cura di Claudio Camarca; Castelvecchi editore, 25 euro, 959 pagine). «Un lavoro come questo», dice, «un vero unicum, è particolarmente prezioso per il nostro Paese. Sulla mafia abbiamo a disposizione ricerche scientifiche di altissimo valore, ma fruibili solo da specialisti, da addetti ai lavori, e una marea di libri e film senza grosse basi scientifiche e dove l’estetizzazione, rischia di far apparire a quei giovani più permeabili e con meno filtri critici, il fenomeno malavitoso quasi come una suggestione positiva; ingenera una mitizzazione del male. Il Dizionario, invece, è opera di alta divulgazione. Non banalizza mai i concetti complessi ma allo stesso tempo si rivolge al popolo italiano, come una sentenza, ed è uno strumento di verità. Per colpa della mafia, e dei rapporti tra mafia e politica, la nostra è una democrazia dimezzata. Non occuparsene vuol dire suicidarsi come Paese. La situazione attuale spinge a riflessioni amare. C’è stato anni fa un periodo straordinario di lotta alla mafia in cui credevamo quasi di avercela fatta, poi qualcosa si è inceppato».

Da «Abate» («clan egemone negli anni ottanta-novanta a San Giorgio a Cremano…») a «Zumpata» («Sorta di duello rusticano, rito di iniziazione alla Bella Società Riformata, l’organizzazione di fine Ottocento considerata l’antenata della CAMORRA…») sono oltre 4.600 le voci della grande enciclopedia della mafia, a cui si aggiungono 80 schede approfondite e la lista dei morti di mafia. A scrivere i lemmi un pool di decine di contributori, guidati dal Claudio Camarca, che ha portato a termine il lavoro iniziato da Roberto Morrione, morto per una grave malattia il 20 maggio 2011. Ecco circa la metà della voce Andreotti Giulio:  

ANDREOTTI GIULIO. Tra i tanti soprannomi (Divo, Belzebù, Molok, la Sfinge, il Gobbo, il Papa nero, la Volpe) che gli sono stati affibbiati, dento COSA NOSTRA ne circola uno che denota familiarità: “zio Giulio”. Tra i pochi mebri della Costituente che forgiò la Repubblica ad aver superato la soglia del terzo millennio, sette volte presidente del Consiglio, occupa ventisei poltrone di ministro in diversi dicasteri, con le maggioranze più varie. Senatore a vita dal 1991, sfiora l’anno dopo l’elezione a Presidente della Repubblica – la strage di Capaci in cui cade il giudice Giovanni Falcone ne ferma definitivamente la corsa al Quirinale, dopo che l’omicidio del suo “viceré” siciliano Salvo Lima era giò suonato come un lugubre avvertimento a lui diretto – e sarà l’unico statista al mondo a subire una sentenza definitiva che ne certifichi i rapporti di «concreta collaborazione» con la mafia. Ex allievo di Alcide De Gasperi, leader storico della Democrazia Cristiana, scivola sull’applicazione della controversa norma di  CONCORSO ESTERNO IN ASSOCIAZIONE MAFIOSA in riferimento a relazioni con Cosa Nostra, sue e della sua corrente, indicata da Carlo Alberto dalla Chiesa in uno scritto privato come «la famiglia politica più inquinata» di Sicilia. Relazioni che passano, secondo gli atti giudiziari, , tramite emblematici e potenti uomini-cerniera come lo stesso Lima, il finanziere Michele Sindona, legato alla mafia sia italiana sia americana («Se non c’erano motivi di  ostilità, non si poteva che parlarne bene», dirà di lui Andreotti), gli esattori Nino e Ignazio Salvo, pilastro economico-finanziario del sistema politico mafioso e, per un certo periodo, con l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino. Assolto in primo grado il 23 ottobre 1999 dall’accusa di mafiosità, il 2 maggio 2003 viene dichiarato responsabile, dalla corte d’appello palermitana di aver commesso fino al 1980 il reato di associazione a delinquere con Cosa Nostra.  Nell’ultimo grado di giudizio, la seconda sezione penale della corte di Cassazione cita il concetto di «concreta collaborazione» tenuta con esponenti di spicco di Cosa Nostra fino alla primavera del 1980, attraverso incontri diretti con Gaetano Badalamenti e Stefano Bontate in particolare, e fa notare che la corte palermitana non si è «limitata ad affermare la generica e astratta disponibilità di Andreotti nei confronti di Cosa Nostra e di alcuni suoi vertici», ma ne ha sottolineato i rapporti con i suoi referenti siciliani». Il reato commesso non è più perseguibile per sopraggiunta perscrizione. Al di là delle risultanze giudiziarie, è storicamente accertato il peso giudiziario, per la carriera di Andreotti, di certi suoi contatti. Fino al 1968…

Le preoccupazioni di Caselli (e le lodi per il Dem) sono state condivise anche da Raffaele Cantoneil magistrato napoletano che si è occupato delle indagini sul clan camorristico dei Casalesi, ottenendo la condanna all’ergastolo dei suoi capi più importanti, fra cui Francesco Schiavone, detto Sandokan, Francesco Bidognetti, detto Cicciotto ’e Mezzanott e molti altri. «Sento tanti giornalisti molto accreditati sbuffare quando si parla di mafia; ritenere che il tema abbia scocciato “il lettore”. Eppure tutte le volte che vado a qualche conferenza le sale sono piene (anche a Torino la Sala Gialla del Lingotto non è riuscita a contenere tutti, ndr). Mi sa che sia l’ennesimo caso in cui i grandi guru della comunicazione hanno un’immagine poco rispondente al vero di cosa davvero interessi alla gente. L’allarme mafia è più vivo che mai. Per fortuna nell’ultimo anno abbiamo finalmente avuto un ministro non politico, grazie al governo dei tecnici, e il numero di Comuni commissariati è stato in dodici mesi pari ai 6 o 7 anni precedenti. Il Tar non ha più annullato i provvedimenti e c’è stato il primo commissariamento di un Comune capoluogo di provincia, Reggio Calabria. Cosa avremmo pensato anni fa se ci avessere detto che avremmo arrestato quasi tutti i boss? Avremmo pensato che la battaglia la stavamo per vincere. Invece no. Le mafie hanno dimostrato una grande facilità di sostituzione di chi la comanda. E anche se ai vertici c’è un ragazzino di 24 anni con un nome tipo Joe Banana, gli affari sono floridi. Il crimine organizzato nella nostra società ha il pilota automatico, per questo tutti devono conoscerla e studiarla. Con libri completi e pensati per tutti».

Oltre al Dizionario enciclopedico delle mafie è stato ripresentato a Torino (da Rubbettino) L’Atlante delle mafie (a cura di Enzo Ciconte, Francesco Forgione, Isaia Sales; 2012, 458 pagine, 24 euro). Un grande libro di geografia malavitosa che punta a rompere per sempre il malinteso sulla sicilianità della mafia. Perché se è vero che la mafia è nata in Sicilia nell’Ottocento, il modo in cui si è trasformata in «modello vincente per tutte le forme di violenza privata di successo» ne fa un fenomeno sociale e mondiale. Anzi, globale.

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