L’anno scorso abbiamo passato mesi d’inferno tra chi proponeva di togliere al giudice la facoltà di giudicare i licenziamenti individuali per motivi economici e chi diceva che modificare l’articolo 18 era un attentato alla civiltà e voleva invece la cancellazione della facoltà delle imprese di fare contratti a chiamata. Entrambe le posizioni erano irragionevoli e alla fine un compromesso si è trovato con il rendere meno rischioso per l’impresa il licenziamento individuale per motivi economici e in cambio concedere che sia più difficile assumere con partita Iva o con contratti di co.co.co dei lavoratori che in realtà svolgono mansioni in condizioni di subordinazione o comunque si trovano in una condizione di dipendenza economica pressoché identica a quella dei lavoratori subordinati.
Ora questo compromesso è a rischio perchè la disoccupazione giovanile è in crescita e le assunzioni non sembrano tenere il passo dei licenziamenti. Alcuni attribuiscono la responsabilità alla riforma e propongono di cambiarla radicalmente, senza pensare che cancellare un compromesso che ha richiesto mesi potrebbe farci piombare nell’incertezza per altri mesi se non anni.
Alcune correzioni sono tuttavia necessarie: gli imprenditori che devono convertire i co.co.co o le partite Iva in altri tipi di contratti di lavoro subordinato affrontano un incremento dei costi proibitivo. Lo stesso si dica per chi deve assumere dei giovani ex-novo in un momento di crisi e di grande incertezza.
In primis è un problema di costi del lavoro e poi è anche un problema di facoltà di licenziamento. L’idea di un contratto unico di inserimento è buona, ma non risolve di per sé il problema dei costi; oltretutto appare inopportuno – a fronte delle emergenze che incalzano – iniziare ad affrontare ora una discussione sulla introduzione di un nuovo tipo di contratto, quando questa soluzione non ha raccolto il consenso dei partiti al governo e delle parti sociali lo scorso anno in sede di redazione della riforma. Meglio utilizzare gli strumenti già a disposizione, ottimizzandone la funzionalità.
Oggi non abbiamo bisogno di nessun ripensamento sull’articolo 18 e nessuna revisione della restrizione sui contratti co.co.co su cui abbiamo già speso troppo tempo e troppo capitale politico. Piuttosto abbiamo bisogno una radicale semplificazione del contratto di apprendistato secondo due direttive: solo formazione interna all’azienda (e quindi, superamento dell’indispensabilità di leggi regionali in merito alla formazione “esterna”, che tardano ad esser adottate), una disciplina base del contratto dettata per legge (e quindi, superamento anche dell’indispensabilità della disciplina dei contratti collettivi di categoria) e nessun limite di utilizzo (quindi tutte le imprese possono usufruirne senza vincoli sul numero di apprendisti stabilizzati in precedenza), lasciando esclusivamente i limiti di età degli apprendisti e la durata massima triennale dell’apprendistato.
Secondo la disciplina attuale l’impresa è tenuta ad offrire all’apprendista formazione sia interna sia esterna. Quest’ultima è di competenza delle Regioni, che o non adottano le necessarie leggi regionali o non hanno risorse ed organizzazione per impartire una formazione di qualità. La disciplina del rapporto contrattuale è rimessa ad accordi interconfederali o ai contratti collettivi di lavoro nazionali, ma è assai complesso al momento trovare l’accordo tra tutte le parti sociali più rappresentative. Tutto questo impedisce il ricorso all’apprendistato o serve a poco per incrementare l’occupazione giovanile a condizioni dignitose. L’impresa fa già tanta formazione per quanto le conviene investire in un lavoratore. Se l’impresa, contravviene agli obblighi di formazione dell’apprendista, dovrebbe essere solo tenuta a restituire il sussidio ai contributi e a pagare al lavoratore la retribuzione nella misura piena. Se l’impresa invece abusa di un contratto di co.co.co o di partite iva, deve continuare ad essere esposta al rischio della ben più onerosa sanzione di veder trasformati questi contratti in contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
Oggi ci sono anche degli ulteriori limiti su quanti apprendisti un’impresa può assumere in relazione al numero di lavoratori impiegati. Il calcolo è così complicato che serve un consulente del lavoro per stabilire se si rispetta il vincolo. Anche in questo caso questi vincoli appaiono ora superabili: la formazione “interna” è prevalentemente on the job, quanto più l’apprendista acquisisce competenze ed esperienza, tanto più l’impresa avrà interesse a trattenere queste risorse trasformando l’apprendista in contratto a tempo indeterminato. Senza vincoli di formazione esterna e senza limiti di utilizzo, l’apprendistato assomiglierebbe ad un contratto unico di ingresso per i giovani fino a 29 anni, con il sostanziale vantaggio di essere meno costoso per l’imprenditore che usufruisce dei contributi ridotti e della possibilità di inquadramento fino a due livelli inferiori di qualifica rispetto alla categoria spettante.
Si potrebbe obiettare che così strutturato l’apprendistato si presterebbe ad abusi. Magari ne abusassimo di più! I contratti di apprendistato sono solo qualche centinaia di migliaia in tutta Italia, quasi nessun laureato ha un contratto di apprendistato.
Se poi l’apprendistato non decollerà, allora ben venga la rivoluzione del contratto unico. Ma ora un milione di giovani disoccupati non può certo stare ad aspettare che le giunte regionali o che i contratti collettivi nazionali adottino le nome necessarie per poter agevolmente e senza incertezze ricorrere all’apprendistato.
Twitter: @marcoleonardi9