Sembrano più i ragazzi della via Pal, che i pronipoti di Gramsci. Impegnati, come nel romanzo di Ferenc Mòlnar, in una battaglia contro le Camicie Rosse per conquistare un campo (quasi) abbandonato. Anche se la parola d’ordine dei giovani militanti della base del Pd, orfani di Pier Luigi Bersani, è una sola: Reset Pd. Ancora più infuriati contro la logica dei “caminetti”, dopo che hanno capito che il nuovo segretario del Pd potrebbe essere eletto senza il popolo delle primarie. E non importa se le dinamiche interne al partito sono cambiate con la formazione del governo Letta, che ha spostato l’asse del Pd verso il centro. Loro vogliono una cosa sola: il rinnovamento generazionale. A tutti i costi. Anche se i loro riferimenti politici, come i parlamentari Pippo Civati e Laura Puppato ora sono in minoranza e l’intesa con i grillini in cui speravano è tramontata. Insorti dopo il vulnus che si è creato durante l’elezione del presidente della Repubblica, spiazzati da un cambiamento repentino degli equilibri interni al partito che è (quasi) imploso anche per la carica dei 101 franchi tiratori, loro vanno avanti. E rilanciano. Con un solo obiettivo: congresso subito e aperto, cambiamento della classe dirigente dai vertici fino ai segretari regionali e provinciali. Senza più farsi trascinare dalla forza delle correnti. Con diversi approcci e variegate sfumature, che hanno però in comune un sentiment cripto-grillino. Anche se loro rifiutano questa catalogazione, quando si entra nel merito, ad analizzare le ragioni dell’ira funesta che li ha portati ad occupare diversi circoli del Pd in molte città italiane, -al grido di Occupy Pd, sulla falsariga del movimento Occupy Wall Street-, emerge chiaramente che condividono molti dei temi della piattaforma digitale del M5s. Come l’abrogazione del finanziamento pubblico ai partiti, la battaglia contro la corruzione e soprattutto l’intransigenza morale contro gli “impresentabili”.
Si tratta soprattutto di una frattura verticale che pare ogni giorno più insanabile. Cresciuti con Berlusconi, hanno età diverse, ma un tratto comune: l’indignazione contro qualsiasi intesa con il Pdl. Dopo le parlamentarie, quando sono stati scelti nuovi deputati da mandare a Roma, che non fossero come in passato cooptati dalle segreterie del partito, molti di questi cripto grillini democratici si sono ritrovati a Montecitorio e fanno asse con i giovani militanti rimasti sul territorio. Da Varese a Torino, da Bologna fino a Cagliari, Bari, Napoli, passando per Parma, in questi giorni hanno occupato i circoli per assemblee autoconvocate esprimendo rabbia contro la (loro) casta, il movimentismo e un reciproco amore per quelli che chiamano i corpi intermedi, e cioè la società civile. A Torino, per esempio, sin dai giorni convulsi della protesta contro la scelta di Pier Luigi Bersani di candidare Franco Marini al Quirinale, il mood è dichiaratamente giacobino. E infatti la loro protesta si richiama al giuramento della Pallacorda della rivoluzione francese, proclamato dopo gli Stati Generali. Prima della formazione del governo Letta, hanno scritto una lettera aperta ai segretari dei circoli del Pd piemontese per chiedere che la piramide venisse rovesciata per creare una maggiore democrazia interna. E martedì scorso, per nulla intimoriti dal nuovo contesto politico e istituzionale, hanno fatto una nuova assemblea per ribadire i loro obiettivi e lanciare un appello a una mobilitazione l’11 maggio, durante il giorno dell’Assemblea nazionale del Pd. (Mal) digerito il governo guidato da Letta, non arretrano. «Vogliamo un congresso per tesi politiche e non persone», scrivono loro, che di correnti nel Pd ne hanno contate 33. «Sono gruppi che seguono dinamiche personali, a volte persino famigliari, alcuni dirigenti fanno parte contemporaneamente di diverse correnti», spiega a Linkiesta Fabio Malagnino, uno degli animatori di Occupy Pd a Torino, epicentro insieme a Bologna della rivolta generazionale. Ma chi sono questi “alieni”, con cui i vecchi dirigenti del Pd dovranno fare i conti? Una comunità eco-digitale-movimentista, che vuole riprendersi il partito attraverso la democrazia che parte dal basso, invertendo la struttura piramidale del centralismo democratico. Fabio Malagnino, membro della direzione provinciale, giornalista, 39 anni, si occupa di innovazione e temi digitali nel Pd. Alla prima manifestazione di Occupy Pd si è presentato con la maschera di Anonymous. «Abbiamo scelto appositamente di evocare il giuramento della Pallacorda perché anche noi siamo il Terzo Stato del partito che vuole eliminare la nobiltà, pacificamente si intende», spiega a Linkiesta. E sbaglia chi pensa che qui sul territorio ci sia una corrente che vuole prevalere sull’altra. Le correnti sono sfumate e mescolate. «Noi mettiamo solo in discussione il metodo con cui si guida il partito che, in teoria non ha avuto altre parole d’ordine che quella di combattere Berlusconi, per poi finire sempre a subire i ricatti del Cavaliere». Le linee guida di Malagnino? Web conoscenza, eco-sostenibilità, e ovviamente la democrazia dal basso. «Siamo stufi di questi dirigenti, che si divertono a giocare a Risiko, e non sanno interpretare i cambiamenti della società e della loro stessa base. E soprattutto basta con le correnti, non vogliamo più essere associati a un nome, chiamateci anche Pippo e Paperino se volete. Evviva la contaminazione». Anche se, quando lo hanno definito grillino, lui ha replicato “Mi viene da ridere”, ora ammette che molti dei temi sollevati dai grillini sono condivisibili. Grillino no, ma cripto-grillino sì, visto che sui tesserati usati per manipolare il consenso dei militanti a favore delle correnti, dice: «D’ora in poi deve valere il principio: una testa, un voto». E non hanno cambiato idea neanche dopo la formazione del governo Letta, anzi. Come spiega il vicesegretario dei Giovani democratici torinesi, Ludovica Cioria, 24 anni, anche lei attivista del movimento Occupy Pd: «Questo governo deve durare un anno, fare una legge elettorale, sbloccare i pagamenti della P.A, rifinanziare la cassa in deroga, alleggerire i costi della politica. Certo, ministri come Cécile Kyenge o Graziano Delrio rappresentano un segnale di rinnovamento, ma il governo Letta rimane pur sempre un governo di larghe intese e la nostra identità è fondata sull’antiberlusconismo. I grillini? Noi siamo costruttivi e loro distruttivi, ma la battaglie per il reddito di cittadinanza, l’etica della politica, la riforma dei costi della politica sono anche fra i nostri obiettivi».
Insomma, loro si considerano i buoni, come i protagonisti del fenomenale romanzo di Corman McCarthy, la Strada. Un padre e un figlio, che in un mondo post-Apocalisse rimasto al buio ripetono “Noi siamo i buoni perché portiamo il fuoco”. I dirigenti del partito, quelli moderati, soprattutto i renziani, che probabilmente in futuro potrebbero rappresentare la nuova testa del partito, considerano questo atteggiamento pericoloso: un modo di riproporre la dannosa e radicata pretesa di superiorità morale, elitaria, del popolo della sinistra, che non permette di intercettare l’elettorato italiano, perché “non bisogna cambiare gli italiani, ma l’Italia”, come sostiene il sindaco di Firenze. I ragazzi della via Pal del Pd appartengono però a un magma giovanile, che accomuna sia i militanti rimasti sul territorio a fare i consiglieri comunali, sia gli esordienti in Parlamento. E non si sentono affatto vittime della sindrome di Stoccolma, prigionieri cioè del loro fustigatore, Beppe Grillo, che continua a umiliare il Pd. Di più. Tutti giurano di aver apprezzato da sempre la figura indipendente ed autorevole di Stefano Rodotà “perché è il più grande giurista italiano”, ripetono, come un mantra, anche se l’elezione del presidente della Repubblica pare quasi preistoria, ormai. A Varese per esempio, dove alcuni circoli sono stati occupati, il segretario dei Giovani democratici è Aureliano Gherbini. Cresciuto con Berlusconi, ha 22 anni, si sta laureando con una tesi su Socrate, ed è contrario a qualunque accordo con il Pdl. Convinto, che si deve avere un dialogo con il M5s. Lui che è entrato nel Pd a 16 anni, ha studiato Machiavelli e Gramsci, ha creduto in Pier Luigi Bersani finché incarnava la speranza, «perché usava il linguaggio della verità, aveva la capacità di narrare un’epopea, che è tramontata con la scelta di Franco Marini», spiega. Convinto, come molti altri militanti della sua generazione che, per voltare pagina, si debba dare un messaggio di discontinuità, superare il berlusconismo. E trovare un’alternativa alla classe dirigente cooptata. Anche se è impossibile fargli ammettere di essere un cripto-grillino, afferma di condividere alcuni dei loro temi, come la necessità di una battaglia contro la corruzione, l’intransigenza morale verso gli impresentabili. «Il governo Letta per noi è stata una sconfitta politica”, ammette, riferendosi all’accordo con il Caimano. E comunque io non credo che Enrico Letta ci abbia liberato dalla nostra casta di post comunisti. Almeno finché non vedo Massimo D’Alema ai giardinetti. E poi che siano democristiani o post-comunisti, la questione per noi non cambia. I dirigenti devono farsi da parte e permettere alle nuove generazioni di emergere».
In maggioranza ex sostenitori di Bersani, la loro parola d’ordine è la rottamazione. Come spiega anche Andrea Civati, un giovane praticante in uno studio legale, consigliere comunale a Varese, che si definisce un “renziano critico”. E più che cripto-grillino si considera “cripto-incazzato” contro un partito “che non dice ciò che fa e non fa ciò che dice”. «La nostra classe dirigente non può più pretendere disciplina di partito. Né aspettarsi di poter educare un popolo, che segue e obbedisce alle indicazioni dall’alto (o dal centro). Lui ha provato a sostenere la tesi dell’abolizione del finanziamento pubblico del partito, e si oppone alla casta del suo partito che definisce un patto di sindacato». In nome di un antiberlusconismo, ma pragmatico. «Siamo cresciuti con un’idea sola, quella di abbattere Berlusconi e poi è sempre lui ad abbattere noi perché è un bravo giocatore d’azzardo», chiosa. «Dobbiamo dimostrare ai nostri elettori che vogliamo voltare pagina, altrimenti siamo finiti. E sbaglia chi considera i grillini (s)fascisti. Bisogna capire le loro ragioni, che esprimono una richiesta di cambiamento. Io mi considero pragmatico, ma su un punto sono molto radicale. Voglio che si rompa il patto di sindacato fra i nostri dirigenti, che ci sia intransigenza morale verso gli impresentabili, che nasca una nuova etica della politica. In sintesi, il partito va ripensato».
“Reset Pd”, dunque. Questa è la parola d’ordine anche per i parlamentari scelti alle primarie. Come Veronica Tentori, 27 anni, deputata esordiente di Lecco. Anche lei, alle primarie ha votato per Pier Luigi Bersani e poi per Stefano Rodotà. Per ben due volte. «Vengo dalla sinistra giovanile e ritengo che ci sia stato uno scollamento fra dirigenti e la base. Troppe questioni sono rimaste aperte: ci vuole un confronto franco anche se aspro. Certo, io credo che un governo si dovesse fare perché il Paese ha bisogno di risposte immediate. Ho creduto nell’idea di Bersani all’insegna della responsabilità e del cambiamento, ma poi quando è arrivata la sua proposta di candidare al Quirinale Franco Marini, ero sgomenta. E non credo che sia errato cercare un dialogo con i grillini perché, al di là dei metodi che usano, esprimono una richiesta di cambiamento, che va intercettata». Senza dimenticare Bologna, dove alla Bolognina, proprio dove Achille Occhetto seppellì il Pci, continua a crescere l’onda Reset Pd. Uno dei più attivi è l’assessore comunale Matteo Lepore, anche lui appassionato ai temi digitali. Col suo motto, “Resistere è creare”, sul suo blog ha scritto «Alle elezioni del 24 e 25 febbraio non abbiamo votato per lo status quo, per sopravvivere, ma per cambiare in profondità il Paese, ma una parte del gruppo dirigente ha voluto bombardare il Pd, per farlo esplodere e impedire il rinnovamento. Lo ha fatto con cinismo e con fare dei codardi. Noi ricostruiremo il Pd con scelte nette e radicali». E ora, mentre nei circoli monta l’indignazione per un governo col Pdl, l’onda cripto-grillina s’ingrossa. Loro, i giovani democrat non ci stanno a fare da capro espiatorio. «Ora tutti i dirigenti dicono che il vulnus provocato dai 101 franchi tiratori è anche colpa dei deputati non cooptati, ma scelti dalle primarie. Ci rimproverano la mancanza di rispetto della disciplina di partito», osserva ancora Andrea Civati, ma lo fanno per autoassolversi e fare un congresso che li legittimi nuovamente. Ed emarginare così ogni dissenso.
Decapitata al governo la testa dei big del Pd, la coda del partito si dimena. Fallita l’idea di un’intesa con il M5s, prima della formazione del governo Letta, i giovani di Occupy Pd avevano scritto «Se si fa l’intesa con il Pdl, il Pd è al capolinea», ma anche se la base giovanile in rivolta conta sui grandi numeri, per ora al capolinea sembrano esserci arrivati loro, i ragazzi della via Pal. Come ammettono molti con amarezza, dopo aver scoperto che congresso “subito” e “aperto” per i dirigenti sconfitti non s’ha proprio da fare.