Non stupisce che Palazzo Chigi abbia definito «una buona notizia» l’anticipo della decisione del commissario agli Affari economici Olli Rehn di proporre la chiusura, mercoledì, della procedura per deficit eccessivo nei confronti dell’Italia. Per Enrico Letta e per Fabrizio Saccomanni era cruciale, perché in effetti i margini che si aprono per l’Italia sul fronte delle misure anti-crisi e per l’occupazione sono notevoli – si parla, come è stato scritto più volte, di circa 12 miliardi euro.
A dare margini è lo stesso Patto di stabilità e crescita riformato nel 2011, che, mentre è feroce per chi è al di sopra della soglia del 3% del Pil in termini di disavanzo nominale, è invece molto più flessibile per chi è al di sotto, e si trova in quello che tecnicamente viene chiamato «braccio preventivo» del patto. Sarà il caso dell’Italia una volta che l’Ecofin abbia approvato formalmente la proposta della Commissione (non ci dovrebbero essere problemi).
Sgombriamo anzitutto il campo da una imprecisione che si legge in questi giorni: in gioco non è la possibilità di «scorporare» dal computo del deficit investimenti o poter “sforare” il 3%: se ciò accadesse la Commissione rimetterebbe l’Italia immediatamente in mora. Il patto, così com’è non prevede scorpori di sorta, anche se la Commissione ha presentato una proposta – transitoria, per massimo due anni – di non considerare nel computo del deficit la parte di cofinanziamento nazionale dei programmi che godano di fondi strutturali Ue. Una discussione in corso, che piace molto a Palazzo Chigi e di cui si parlerà al vertice Ue di giugno, ma sul cui esito è difficile fare previsioni. Tantomeno si parla di ottenere per l’Italia quanto hanno ottenuto paesi come Francia e Spagna, e cioè due anni in più per il rientro sotto il 3%: sarebbe per Roma penalizzante, perché anziché uscire dalla procedura si resterebbe dentro, con misure molto più pesanti.
Il punto è un altro. Gli stati membri fuori procedura hanno comunque obblighi molto più leggeri, devono ridurre il disavanzo di massimo lo 0,5% del Pil (mentre a chi è sotto procedura possono essere chieste misure anche sopra l’1%) in vista dell’obiettivo di medio termine. Tuttavia, l’Italia potrebbe cercare di negoziare – anche se per ora Letta nega di volerlo fare – una temporanea deviazione dal proprio obiettivo, (che è il pareggio di bilancio in termini strutturali, vale a dire al netto di fattori ciclici e una tantum intorno al 2015) senza però, si badi bene, sforare la soglia del 3% per il deficit nominale. Il disavanzo strutturale nel 2013 è già basso (0,5%), se potesse restarci per un po’ anziché correggerlo entro due anni si avrebbero risorse in più.
Da non dimenticare che l’allora ministro dell’Economia Vittorio Grilli a febbraio aveva avvertito che anche senza sopprimere l’Imu arrivare al pareggio entro due anni avrebbe probabilmente comportato una nuova manovra correttiva. Il Trattato di Lisbona prevede esplicitamente – ma solo per chi è nel “braccio preventivo”, dunque con un deficit nominale sotto il 3% – la possibilità di una deviazione dall’obiettivo di medio termine «qualora sia determinata da un evento inconsueto che non sia soggetto al controllo dello Stato membro interessato (…) o in caso di grave recessione della zona euro o dell’intera Unione, a condizione che la sostenibilità di bilancio a medio termine non ne risulti compromessa al fine di facilitare la ripresa economica».
Soprattutto, la deviazione in quei casi è consentita «purché sia mantenuto un margine di sicurezza rispetto al valore di riferimento per il disavanzo (dunque a distanza dal 3% del Pil in termini nominali)» e soprattutto «è opportuno tener conto altresì dell’attuazione di riforme strutturali di una certa importanza»: è quello che chiede la Commissione all’Italia nelle raccomandazioni. Senza questi elementi “straordinari”, invece, una deviazione dagli obiettivi di medio termine provocherebbe l’emissione di una lettera di monito da parte dell’Ue.
Al di là del possibile rinvio dell’obiettivo di medio termine, la chiusura della procedura comunque apre margini non da poco. Per il 2014, il Documento di economia e finanza (Def) preparato dal governo Monti prevedeva come obiettivo un deficit nominale all’1,8% del Pil. Fonti della Commissione fanno capire che se l’Italia di discosterà da quell’obiettivo (del resto le ultime previsioni economiche dell’Ue già prevedono un 2,5% per il prossimo anno), non ci saranno problemi. Tradotto: ci potrebbe essere un margine di manovra fino a un massimo dell’1,1% del Pil (arrivando al 2,9 per cento). A Bruxelles, certo, piacerebbe vedere un calo rispetto al deficit nominale di quest’anno (che è proprio al 2,9%), ma la disponibilità c’è.
Tanto più che molti interventi potrebbero rientrare nel capitolo del ciclo economico e delle una tantum, e dunque non esser considerati in termini di deficit strutturale.
Certamente è cruciale il riferimento del Trattato di Lisbona alle riforme strutturali: la Commissione potrebbe considerare che certe misure – ad esempio sgravi fiscali alle imprese o a favore dell’occupazione giovanile – pur essendo costose potrebbero favorire la crescita e dunque ripercuotersi positivamente sui conti pubblici negli anni a seguire.
C’è bisogno, comunque, di grande prudenza, Bruxelles non consentirà più di tanto. Anche perché non si deve dimenticare l’elevatissimo debito pubblico italiano, ormai al 130% del Pil: oltre il doppio del parametro del Patto di stabilità pari al 60 per cento. Il nuovo patto riformato impone a chi è sopra quella soglia di ridurre il debito in misura di un ventesimo l’anno. Ora, per l’applicazione di questa regola l’Ue applica una moratoria di tre anni per chi è appena uscito dalla procedura per deficit eccessivo. Ma è solo una tregua, l’Italia dovrà prepararsi, guai se ricominciassero le finanze allegre del passato.