Se il giornalista contemporaneo può essere comunemente ritratto seduto al desk, Mimmo Càndito, ancorato a fili e cavi, non c’è mai voluto stare. Per raccontare soprattutto la guerra e raccogliere le storie di uomini, donne e bambini devastati dal conflitto. Perché prima dei rischi delle pallottole, per il buon reporter viene quell’empatia profonda con le sofferenze dei popoli di cui parlava Ryszard Kapuscinski. Inviato speciale, commentatore di politica internazionale e corrispondente di guerra de La Stampa, Càndito, classe 1941, ha una esperienza quarantennale da reporter e ha attraversato le ultime crisi più drammatiche della storia del mondo. Dall’Afghanistan all’Iraq, dal Kosovo alla Libia. Ha scritto I reporter di guerra. Storia di un giornalismo difficile da Hemingway a Internet ed è presidente della sezione italiana di Reporters sans frontières, che ha recentemente fornito i dati sui giornalisti uccisi: 600 negli ultimi dieci anni, 19 solo quest’anno (a cui si devono aggiungere 174 arrestati), 36 in Siria negli ultimi due anni. «Un clima di impunità persiste, nove su dieci casi di giornalisti uccisi restano impuniti» ha detto il segretario generale dell’Onu, Ban Ki Moon, in occasione della Giornata mondiale della stampa libera. Secondo il Comitato per la protezione dei giornalisti, che ha sede a New York, la Siria – dove si combattono le truppe leali a Bashar al Assad e gli oppositori del regime – è attualmente il Paese più pericoloso per i reporter. Qui, il 6 aprile scorso, è arrivato Domenico Quirico, collega di Càndito, giornalista de La Stampa, esperto, con alle spalle il racconto della primavera araba (fu ostaggio per oltre un giorno delle milizie lealiste), i campi profughi nel Corno d’Africa e la guerra in Mali. È entrato in Siria dal Libano, il 6 aprile, per raccontare per la quarta volta il dramma della guerra civile. Lunedì 8 ha chiamato la moglie Giulietta, spiegando che da lì in poi il cellulare non avrebbe preso più e che le persone con cui viaggiava gli avevano chiesto di non utilizzare il satellitare, rassicurandola di non preoccuparsi se sarebbe stato in silenzio per qualche giorno. Martedì 9 ha mandato ancora un sms a un collega della Rai, nel quale diceva di essere sulla strada per Homs. È stato questo l’ultimo contatto. La Procura di Roma ha avviato una indagine sulla sua scomparsa, nel fascicolo aperto dal sostituto, Francesco Scavo, si ipotizza il reato di sequestro di persona con finalità di terrorismo.
Cosa può essere successo a Quirico?
Domenico è praticamente impossibilitato al contatto con qualcuno fuori dal territorio siriano, non è dato sapere se questa impossibilità sia il risultato di una condizione di prigionia o se stia perseguendo l’obiettivo di arrivare verso la periferia di Damasco. In questi casi, bisogna seguire il gruppo a cui sei legato. I tempi non sono tuoi, e devi accettare di non poter comunicare. In genere gli inviati vengono spediti in luoghi diversi. Con Domenico, ho lavorato in Libia, un anno e mezzo fa, quando mi raggiunse per lavorare anche lui su un reportage. In quei giorni fu ostaggio insieme ad altri colleghi per quasi 48 ore.
Ha scritto che «il mestiere del reporter di guerra muore, ma ancora non è morto», quale ruolo ha oggi?
Sostanzialmente quello di un giornalismo alla vecchia maniera, un processo di raccolta di dati per la costruzione di una forma testimoniale del racconto della realtà, la più alta ma anche la più pericolosa. È una professione che sta morendo, perché il giornalismo come atto testimoniale viene progressivamente sostituto dal giornalismo come atto mediato. Il primo è il vecchio giornalismo, non credo sia un giornalismo “vecchio”; l’altro è il giornalismo post-moderno o addirittura post giornalismo. Si perde il rapporto con la realtà, che passa fuori dalla finestra della redazione, mentre il redattore la racconta seduto dietro lo schermo del computer.
Non siamo solo nell’epoca delle agenzie ma anche in quella dei Big data, grandi aggregazioni di dati, che attingono informazioni dai social network e dai blog. C’è chi sostiene che rispetto al racconto di una porzione di realtà fatto dall’inviato di guerra, possa avere più valore il resoconto di centinaia di tweet raccolti su Twitter o di post ripresi da blog, per esempio, di dissidenti. Cosa ne pensa?
Un modello non è alternativo all’altro, è possibile combinare diverse posizioni del giornalismo ma nessuna è sostitutiva. Nel 2003, durante il conflitto in Iraq, un giornalista del Washington Post, David Ignatius, aveva rifiutato di essere inserito, a differenza dei suoi colleghi, tra gli embedded al seguito delle truppe, preferendo restare tra gli «unilaterali», gli indipendenti. Si era potuto muovere con la sua macchina, prendendo rischi più elevati, ma avendo una visione della linea di fuoco e dell’arco di combattimento come nessun altro. Le informazioni che arrivano dal pulviscolo infinito delle produzioni in rete sono aggiuntive, sicuramente utili, ma sono io come reporter che fornisco una chiave di lettura autentica, accompagnata, si presume dalla mia professionalità. Dopo aver visto con gli occhi e parlato con le persone, potrò meglio giudicare ciò che dalla rete può completare la mia conoscenza, andando, però, oltre l’estetica dell’apparenza.
Quando storicamente entra in crisi la figura del reporter di guerra?
Da quasi subito, da quando il primo corrispondente William Russell del Times, nel 1854, con il suo resoconto della guerra di Crimea, squarciò per la prima volta la finestra della realtà e distrusse quella conoscenza mitologica della guerra consolidatasi fino ad allora. Questo portò alla caduta immediata del governo inglese, in seguito al sommovimento dell’opinione pubblica. La corona britannica reagì tentando di costruire un racconto ammorbidito e addomesticato della realtà, mandando l’illustre fotografo Roger Fenton a ripararne l’immagine. Il risultato fu una descrizione della guerra quasi bucolica. Ecco, quindi, un primo tentativo di soffocare la conoscenza della realtà. La censura del potere militare accompagnerà la storia del giornalismo. Nel Vietnam si ruppe, però, la logica di bandiera che voleva che ogni giornalista rappresentasse la propria identità nazionale. Successe che, grazie a una serie di errori, in primis del generale Westmoreland, i giornalisti poterono muoversi liberamente, recuperando quella libertà di lettura della realtà di Russell. Il potere politico-militare corse ai ripari, attivando un processo più sofisticato di censura, non in negativo ma in positivo, proponendo al giornalista un’ampia quantità di informazioni, all’interno, però, di una geografia limitata comunque controllata. Gli embedded, inventati dall’Ufficio Psicologico del Pentagono, sono stati visti come soluzione definitiva, ma non sono altro che uno ulteriore strumento del controllo dei flussi informativi. Durante la Guerra del Golfo, noi giornalisti eravamo imbottiti da informazioni, non notizie, perché non si poteva avere la possibilità di capirne il senso. Il generale americano Schwarzkopf, prima di attivare le operazioni di guerra affittò, per conto del Pentagono, i servizi delle due più grandi agenzie pubblicitarie degli Usa. La guerra non venduta più come propaganda, ma come pubblicità.
Nel news management, che esordisce proprio in ambito di guerra, le notizie vengono pianificate e preparate in anticipo per darle in pasto ai giornalisti. Come questo modello ha influenzato altri settori del giornalismo?
Nasce in territorio militare ma si realizza in qualsiasi momento dell’attività giornalistica. Basta notare le cartelline ben confezionate a ogni conferenza stampa. L’urgenza e la velocizzazione impediscono l’atto fondamentale del giornalismo, la verifica. Il giornalista diventa così un container che porta informazioni prodotte da altri. Il New York Times ha calcolato che la maggior parte delle proprie notizie provengono da fonti ufficiali.
Nel dominio incontrastato di tecnologia e velocità pensa possa esserci ancora spazio per un ipotetico slow journalism?
Ne sono convinto, per questo continuo a fare questo lavoro. Anche ai ragazzi dell’Università, nonostante la realtà sia profondamente diversa, provo a insegnare questa alternativa. Che ora può anche essere sollecitata da forme dal basso (vedi citizen journalism e blogger), che diventano protesi per il vecchio giornalista nel racconto dell’attualità.
La guerra è stata laboratorio per comprimere la libertà del reporter. Il giornalismo di guerra può essere proiezione di cosa sarà il giornalismo in futuro, magari con l’esportazione del modello embedded?
La figura dell’embedded nasce e muore in guerra. Difficile trasportala realmente, meno farlo simbolicamente. Per esempio, nell’ambito della politica, dove i giornalisti difficilmente forniscono notizie critiche che riguardano una fonte riservata. Vale più il rapporto con la fonte o il racconto autentico della realtà, quando questo è critico nei confronti della fonte? Entra in campo la propria professionalità e l’anima del giornalismo, che dovrebbe essere giudizio indipendente e autonomo.
Il 3 maggio, si è celebrata la Giornata Mondiale della “Libertà di Stampa”, istituita 20 anni fa dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Cosa significa libertà di informazione?
Libertà è la possibilità di esprimere un giudizio critico, avere la forza, la possibilità, gli elementi e lo spazio per raccontare la complessità del presente, finché c’è facoltà di scegliere nell’arco degli elementi che costituiscono i fatti. Come Reporters sans frontières, oltre alle condizioni nei Paesi dittatoriali, abbiamo approfondito la situazione nella società democratica, che non essendo autoritaria adotta forme sofisticate nel controllo indiretto di flussi informativi, che possono configurarsi come pressioni o latenti minacce. Non sono poi d’accordo con quel che leggo nei documenti dei dieci saggi scelti da Napolitano sulla necessità di porre un ordine preciso alle intercettazioni. Sarebbe un altro elemento per comprimere la libertà.
Ha raccontato nella sua sua lunga esperienza svariati teatri di guerra. Qual è il conflitto che l’ha più segnata?
Circostanze di pericolo accadono in ogni conflitto. In Libia, ero finito insieme ad altri giornalisti in una condizione di reale rischio. Acquattati per terra e rifugiati dietro un pick-up, aspettavamo che finissero di tirarci contro. Appena terminati gli spari, ho notato, guardando la portiera, di essere finito in mezzo a due colpi di kalashnikov. Solo la fortuna ha deciso che non venissi ammazzato. Questo ti segna ma non come il rapporto con l’umanità. Dico spesso che il reporter di guerra assomiglia a Lord Jim di Joseph Conrad: è qualcuno che ha vissuto accanto a qualcuno che deve morire e che poi se ne va via. Certo, può essere ammazzato, ma sono soprattutto i civili a morire. In quarant’anni di guerre sono sempre gli stessi uomini, donne e bambini a vedere distrutte le loro aspettative di vita. Facce diverse, ma sempre le stesse, vittime innocenti. Ritorniamo all’empatia profonda descritta da Kapuscinski, perché uno deve affrontare questa vita di merda, se non sente pulsione per stare vicino a chi soffre e per darne conoscenza.
Il giornalismo è un settore che vive una forte crisi, anche una diffusa precarietà giovanile e non solo, cosa comporta questo sul mestiere e quanto incide sulla figura del reporter?
In Italia ci sono centodiecimila giornalisti, uno ogni 500 abitanti, chi ha una condizione economica accettabile penso sia una minima parte, quella garantita dalle strutture editoriali organiche. Inoltre, proprio per la carenza di editori puri nella nostra società, chi è pagato a pezzo, per pochi euro, si trova anche meno tutelato rispetto alla propria indipendenza. Noi che siamo in qualche modo privilegiati dovremmo tenerne conto.
In guerra qual è il rapporto tra giornalisti professionisti dipendenti dei quotidiani e blogger o freelance? Quando fu rapito Enzo Baldoni, che non aveva il tesserino da professionista ma scriveva per Diario, un quotidiano nazionale titolò «Vacanze intelligenti».
Può averlo fatto, chi non è mai stato in guerra. Il freelance rischia più di tutti. Se vuole che il proprio lavoro venga acquistato, deve spingersi al di là dell’orizzonte del giornalismo organico, che, però, a differenza del titolo citato, in guerra si comporta con solidarietà e consapevolezza di fronte ai rischi dei freelance. Spesso mi è capitato di lavorare, vivere e aiutare colleghi come loro. La nostra condizione è privilegiata, se ho la possibilità posso dormire in albergo e non solo per terra tra topi e scarafaggi (come mi è anche capitato).
Di cosa non può fare a meno un reporter di guerra?
Di essere un testimone autentico. Si trova a contatto con condizioni di vita molto disagiate. La maggioranza, per mia esperienza, reagisce sviluppando un’ulteriore empatia verso le sofferenze. La qualità più importante. Altri, al contrario, diventano cinici, per proteggersi. Noi ci portiamo dietro la caratura di Lord Jim, che si emoziona, forse piange, racconta ma, se tutto va bene, torna a casa…