In una regione tra le più in difficoltà dell’Europa, caratterizzata da alti tassi di disoccupazione e Pil in diminuzione costante, un Paese può già fregiarsi di avere “superato la recessione”: è la Serbia, che negli ultimi mesi, complice un rinnovato interesse degli investitori internazionali, ha visto aumentare la propria produzione dell’1,9% su base annuale. Un “miracolo” che non riesce a sanare tutte le difficoltà di un’economia ancora claudicante, ma che fa intravedere le basi di una possibile ripartenza. E nel quale giocano un ruolo di assoluta predominanza gli investimenti italiani. Può essere la Serbia “la tigre” che garantirà lo sviluppo nella regione?
La buona prestazione della Serbia in uno scenario di crisi . Non è certo un momento facile per le economie del Sud-Est Europa e, nello specifico, per quelle createsi con la dissoluzione della Jugoslavia. La crisi che attanaglia il continente ha duramente influito sulle loro performance. Per la Croazia, prossima candidata a entrare nell’Ue a luglio, la Commissione Europea ha appena certificato l’allontanarsi della ripresa e il perdurare della recessione per il quinto anno consecutivo (dal 2008, il Pil è diminuito di un complessivo 8,7%). La Slovenia, come è noto, sta anch’essa lottando da più di un anno per scongiurare il rischio bailout a causa dei debiti del proprio settore bancario.
Nella miriade di dati avversi che provengono dalla regione, tuttavia, ce n’è uno che potrebbe far sperare in una prima inversione di tendenza: la Serbia ricomincia infatti a respirare. In uno scenario in cui “la ripresa” è stata universalmente derubricata a entità mitologica, Belgrado ha visto nel primo trimestre del 2013 aumentare il proprio Pil di 1,9 punti percentuali. Il Ministro delle Finanze serbo, Mladjan Dinki, ha così potuto dichiarare trionfalmente in una nota pubblicata il 9 maggio che “la recessione in Serbia è finita”. Nel primo trimestre dell’anno, la produzione industriale è cresciuta del 5,2%, trascinata dalle esportazioni, il cui valore è aumentato di quasi un quinto. Secondo stime dell’Unione Europea pubblicate una settimana fa, si tratterebbe della fine del tunnel per Belgrado.
La ripresa è stata principalmente sostenuta dagli investimenti diretti dall’estero (Ide) che, negli ultimi anni, hanno fatto la fortuna del mercato serbo. La circostanza non manca, sotto certi punti di vista, di una certa ironia piuttosto amara per uno dei vicini della Serbia, la Croazia.
Zagabria aveva sperato di fondare la propria strategia economica esclusivamente sui capitali stranieri. L’imminente ingresso nel mercato unico avrebbe dovuto facilitarle il compito. In realtà è successo il contrario: la Croazia ha visto decurtarsi progressivamente gli investimenti esteri a partire dal 2009, annus horribilis per l’intera regione, e non si è più ripresa. Da quel momento in poi, la Serbia è al contrario divenuta una calamita sempre più importante, risultando nel 2011 addirittura il Paese della regione con il maggior livello di Ide.
In questo, l’Italia ha un ruolo da protagonista. Nel periodo 2001-2011, il nostro Paese ha rappresentato il primo investitore per Belgrado. I dati parlano chiaro: 1.949,9 milioni di euro su dieci anni, contro i 1.744,5 del secondo, la Grecia (fonte: Ice 2013). A fare gola agli investitori di casa nostra è, chiaramente, il prezzo del lavoro più favorevole (rispetto anche al resto delle economie della regione), ma anche un efficace sistema di incentivi e di esenzioni fiscali e, soprattutto, la possibilità di ottenere un accesso privilegiato ad altri mercati, principalmente quello russo, con cui la Serbia ha stretto importanti accordi di scambio bilaterali.
Il caso più emblematico è quello della Fiat. Il gruppo di Torino ha investito quasi un miliardo di euro nello stabilimento di Kragujevac e nella costruzione della nuova 500L. Fiat Serbia è oggi la colonna vertebrale delle esportazioni del Paese, contando per circa il 20% del loro totale. Più di 43.000 vetture sono state prodotte dall’entrata in funzione degli impianti (luglio 2012) a marzo 2013. Quest’anno, il volume totale di unità realizzate dovrebbe essere di oltre 200.000.
L’investimento della Fiat insomma sta pagando e non soltanto dal punto di vista della riduzione dei costi: la casa automobilistica potrebbe riuscire a sfruttare la Serbia come avamposto al fine di penetrare nel mercato russo. Grazie ai buoni uffici di Belgrado, e agli accordi esistenti tra i due Paesi, la Fiat ha ottenuto il permesso di esportare una quota dei propri prodotti in Russia senza dazi. Si parla, secondo il Ministro dell’Economia serbo, di circa 100.000 auto in tre anni. Ma la presenza del gruppo si sta rivelando preziosa anche per Belgrado, che proprio grazie a essa ha rivitalizzato le proprie esportazioni e riequilibrato parzialmente la propria bilancia commerciale.
Oltre alla Fiat, esiste un vasto emisfero di imprese italiane che hanno trovato in Serbia un ambiente favorevole: dalle banche (Unicredit e Intesa-San Paolo, che insieme rappresentano circa il 25% del mercato in Serbia) alle assicurazioni (gruppo Generali, prima società nel settore nella repubblica balcanica), per finire con il tessile e la maglieria, il settore in cui la presenza italiana è in proporzione maggiore (Benetton, Pompea e Calzedonia, tra gli altri nomi, hanno aperto propri stabilimenti in loco).
La massiccia ondata di investimenti stranieri, ottenuti principalmente da stati europei ma anche da Turchia, Cina ed Emirati Arabi, si è fin qui dimostrata fondamentale per la Serbia. Dodici miliardi di euro negli ultimi cinque anni, che hanno permesso di cominciare a ricostruire un tessuto industriale efficiente dopo che la guerra negli anni novanta e i bombardamenti Nato ne avevano distrutto le capacità. Se la Serbia può già affermare di essersi ragionevolmente lasciata alle spalle il momento più duro della crisi, è perché la strategia seguita dal governo ha cominciato a dare i risultati sperati.
Una Serbia “locomotiva” dei Balcani? Non proprio, o comunque non ancora. Nonostante i segnali di ottimismo, non è possibile dire che la Serbia sia già la “tigre” dei Balcani, non fosse altro perché il suo, almeno per ora, è un caso isolato in una regione che sembra affondare nella crisi economica del vecchio continente. Potrebbe però diventarlo, se l’interesse degli investitori non verrà meno. Nei mesi scorsi, l’esecutivo di Ivica Dai si è notevolmente impegnato per ridurre le oscillazioni del dinaro rispetto all’euro, e per migliorare le finanze pubbliche che meno di un anno fa parevano in enorme difficoltà. I passi in avanti nella questione con il Kosovo danno indicazioni confortanti sulla normalizzazione della politica e della società. Il 2013 per Belgrado è cominciato nel migliore dei modi e se, come pare probabile, a giugno Bruxelles deciderà di fissare una data ufficiale per l’inizio dei negoziati di adesione, allora la Serbia potrà dire di aver cominciato un nuovo ciclo.
Certo restano, sullo sfondo, questioni che ancora attendono di essere risolte. Nel breve periodo difficilmente l’incremento del Pil si tradurrà in una maggiore distribuzione della ricchezza o nella diminuzione della disoccupazione, cresciuta di dieci punti percentuali (dal 13,8% al 25%) nell’arco di un lustro. Al contrario, la situazione della popolazione continuerà nel breve periodo a rimanere preoccupante, con il 9% di essa costretto a vivere in condizioni di povertà.
Secondo l’economista serbo Miroslav Zdravkovi la situazione è grave anche a causa dello squilibrio demografico tra le varie categorie sociali: «Per ogni cento cittadini che hanno un lavoro», spiega, «la Serbia ha 98,9 pensionati e 42,8 cittadini disoccupati». Troppo: «Questo ha conseguenze sensibili nella vita della popolazione. Troppi individui qui dipendono da un esiguo ceto produttivo. Tutti i redditi si sono contratti, ad eccezione delle pensioni. Per la prima volta, in Serbia, le pensioni sociali sono la prima fonte di sostentamento per la popolazione, prima ancora dei salari da lavoro. Una situazione folle, che probabilmente esiste solo da noi».