Il mondo va verso Asia e Usa, il Sud Europa è periferia

Via dalle grandi rotte commerciali e con una popolazione vecchia

La crisi italiana è parte di una questione più ampia: qual è il ruolo politico del Sud Europa? Sembra che, tra crisi finanziaria e stravolgimenti geopolitici, il meridione del continente si stato tagliato fuori da tutti i principali movimenti di crescita e innovazione. Il successo della penisola europea nella storia è stato dovuto sempre alla capacità d’inserirsi nei grandi traffici commerciali del pianeta, con una posizione di vantaggio dovuta al controllo del bacino mediterraneo e della finanza. Se però gli equilibri geopolitici si spostano, c’è il rischio che – sempre di più – i paesi “dell’olio d’oliva” possano vivere solo in base al successo di altri, posto che rimanga qualcosa da spartire.

Il primo (noto) problema del quadrante riguarda l’euro. La moneta unica ha problemi strutturali: è un progetto nato con mancanze politiche gravi. Ma è stato tutto meridionale e deliberato il rifiuto di riformare l’economia quando i paesi avevano ancora la capacità di prendere a prestito fondi dai mercati. Il Nord si è riformato e sta godendo di vantaggi economici che, pur superiori rispetto ai meriti effettivi, sono innegabilmente meritati. Si può anche protestare contro l’ “egocentrismo” tedesco, ai limiti dello sciovinismo economico, ma ciò non eviterà al Sud di dover attraversare almeno una decina d’anni di stagnazione e riforme, mandando perduta un’altra generazione di persone.

La “generazione perduta” del Sud Europa è segnalata con evidenza da Eurostat. Il Guardian ha recentemente pubblicato una tabella in cui il quartetto Spagna, Italia, Grecia e Portogallo svetta in Europa, con tassi di disoccupazione giovanile che oscillano tra il 37 e il 57%, oltre al fenomeno pernicioso secondo cui, alle volte, chi ha una laurea ha meno speranze di trovare lavoro rispetto a chi non ce l’ha. Il Sud Europa, privo di direzione, non ha una leadership in grado di assegnare uno spazio economico alle nuove leve, tanto più se preparate.

A questo fenomeno se ne unisce un altro: nel Sud Europa meno persone lavorano rispetto al Nord. In particolare, se consideriamo il totale della “popolazione attiva” sulla popolazione totale (attiva e non attiva), l’Italia fa segnare il risultato peggiore del continente: appena il 42,4%. Il dato è di ben dieci punti percentuali peggiore rispetto alla Germania, ed è peggiore anche rispetto a Spagna (50,2%), Portogallo (51,8%) e Grecia (45,3%).

Questa situazione non dipende solo dai tassi di disoccupazione più alti o dal fenomeno dei NEET (“Not in Employment, Education and Training”), ma da una vergogna che da molti è difesa come “cultura”, e invece è solo inadeguatezza economica: non consentire alle donne di lavorare. A parte Malta, l’Italia fa segnare la situazione peggiore del continente per quanto riguarda l’impiego delle donne: appena il 34,5% della popolazione femminile è attiva (rispetto al 50,7% degli uomini italiani). Anche la Grecia è in una situazione simile alla nostra.

La recessione, insieme alla scelta di non consentire la creazione di un ambiente economico adatto alla vita della donna sta generando due altri fenomeni: un tasso di natalità molto basso, e di conseguenza l’invecchiamento della popolazione. In tutta Europa è basso, ma nel Sud lo è di più – con l’eccezione della Germania. Nel 2012 la media era di 1,4 figli per donna negli anni di fertilità, simile alla Grecia e alla Germania. Il migliore dei PIGS era il Portogallo a 1,51. Tutti si trovano sotto la media UE (1,58) e alla Scandinavia, che svetta attorno all’1,75. In Francia la media è 2,08, anche grazie al contributo dell’immigrazione. L’età mediana in Italia è la terza più alta al mondo, con 44,3 anni: ciò dipende dal fatto che viviamo a lungo, ma soprattutto dalla mancanza di prole. È un suicidio demografico, lento e inesorabile.

Agli aspetti dell’economia e della demografia se ne aggiunge ancora un altro: la geografia. Il Sud Europa, a causa del nuovo percorso della globalizzazione, si è spinto “fuori dai giri che contano”. La posizione geografica è importante: è stata alla base dell’emersione delle grandi potenze capitaliste nell’epoca moderna. Venezia controllava le coste mediterranee e le nuove rotte continentali. L’Inghilterra s’inserì tra l’Europa e l’Asia, e così fece l’Olanda prima di lei. Il Sud Europa sconta il fatto che le nuove vie commerciali hanno tagliato fuori il Mediterraneo: nessun porto della zona figura tra i 30 più trafficati al mondo, e solo al 31esimo e al 36esimo posto ci sono due porti spagnoli (Valencia e Algeciras). Il totale dei container movimentati da tutti i porti italiani in un anno (9.5 milioni) è inferiore al totale del solo porto di Rotterdam in Olanda (circa 12 milioni) e di poco superiore al porto di Amburgo (9 milioni) in Germania. Il maggior porto italiano, Gioia Tauro, ancora nel 2002 era al 18esimo posto al mondo: nel giro di pochi anni è scomparso dalle classifiche.

C’è da aspettarsi che la situazione peggiori ulteriormente: a causa degli sconvolgimenti degli ultimi tre anni, le economie del Maghreb, dell’Egitto e del Mashriq attraversano gravi incertezze, che si tradurranno in un’ulteriore riduzione dei traffici. Tra le economie costiere del Nord Africa e del mondo Arabo, i tassi di crescita sono molto inferiori rispetto a quelli dei paesi in via di sviluppo (con l’eccezione della Libia in recupero dalla guerra civile). Con l’apertura della “Rotta Nord-Est” – dovuta allo scioglimento dei ghiacci artici – e la possibilità di trasportare container per nave bypassando Suez, il Mediterraneo e i suoi porti potranno servire solo come terminal d’ingresso per il consumo domestico – e non per esportare prodotti al resto del continente.

Confronto tra la rotta tradizionale dalla Korea del Sud all’Europa Settentrionale (in rosso), rispetto alla rotta attraverso il “Passaggio a Nord Est” (in blu). Da Wikipedia

Del resto, si può far poco contro uno sconvolgimento geografico come lo scioglimento della calotta polare. Però, anche nei cieli la situazione non appare più promettente: nel 2012 l’aeroporto di Fiumicino ha “celebrato” la sua uscita dalla lista dei 30 scali più trafficati al mondo – mentre ancora nel 2008 era al 25esimo posto. Altri scali si sono presi la posizione d’interconnessione tra Est e Ovest del mondo: a parte il classico Heatrow a Londra, Francoforte come numero di passeggeri (57 milioni e mezzo l’anno) è al livello di Dubai. 

Resiste l’aeroporto di Madrid Barajas grazie al rapporto con il Sud America, movimentando oltre 45 milioni di passeggeri. Proprio l’America Latina avrebbe potuto rappresentare una risorsa per il Sud Europa per ricavarsi un nuovo ruolo, ma anche qui ci sono forti incertezze. Sono prima di tutto politiche: quando in crescita, i paesi sudamericani denunciano regolarmente allarmanti segnali di sciovinismo, che li spingono – forse un po’ prematuramente – a rifiutare qualsiasi coordinamento da parte spagnola. La Spagna, ovviamente, ci ha messo del suo, con l’espressione di governi che per dieci anni non hanno compreso costa stesse succedendo nella penisola iberica, tra palazzacci e palazzoni. Ma anche le economie del continente sudamericano rischiano di essere una promessa tradita, con l’Argentina sull’orlo di un nuovo default, e il Brasile che si domanda come far ripartire il sogno dell’economia carioca.

Sarà qualcosa di spietato, ma è così: l’economia di oggi si basa sul principio del “winner takes all”. Il Sud Europa non riesce a esprimere una politica estera vera, proprio perché non ha ben chiara la direzione in cui deve andare. Una “tendenza della nuova globalizzazione” non è niente di calato dal cielo: le tendenze si creano in base agli attori che le movimentano. Un paese in grado di esprimere qualcosa di utile all’economia globale – sia esso innovazione, forza lavoro, imprenditorialità, petrolio – crea esso stesso un trend. Se l’Europa meridionale è tagliata fuori dalle rotte, è anche perché il suo modello economico conservatore ha ben poco da esprimere.

Che non ci si facciano però illusioni: la colpa di aver vissuto d’illusioni per vent’anni dovrà essere scontata con il sacrificio. A poco varrebbe tracciare disegni ambiziosi di rinnovato protagonismo, se i soldi non ci sono. Eppure, anche in questo sfaldamento politico, qualcosa si deve fare: liberare le risorse economiche residue e semplificare i processi burocratici. Come ha auspicato Daniel Gros in un’intervista a Linkiesta, la crisi potrà portare alla «distruzione di quelle strutture che bloccano il paese». Solo così si potrà di nuovo pretendere un piccolo posto al centro del mondo, insieme a tanti altri. Se ci si deve arrangiare, che almeno sia consentito farlo. 

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