Imprese, è secessione contro la casta di Confindustria

Il presidente Squinzi all’assemblea annuale: «L’Italia è sull'orlo del baratro»

Se mai avverrà una secessione in Italia, probabilmente sarà all’interno di Confindustria. Dopo dieci anni di veti incrociati, diatribe interne, scontri fra cordate, e interessi divergenti dei grandi e piccoli gruppi dell’economia italiana, il carrozzone confindustriale ribolle come una pentola a pressione.

L’assise pubblica di Confindustria apre dopo il severo monito lanciato il 22 maggio da Guido Barilla su La Stampa. In un’intervista, il patron del gruppo alimentare, ha auspicato una scissione fra le grandi aziende che forniscono servizi, di cui molte pubbliche, (Eni, Enel, Ferrovie) dai produttori manifatturieri. E così si ritorna a bomba, allo stesso annoso, e per molti imprenditori ormai scandaloso, dilemma di un sistema piramidale, ingessato, che non può, non riesce a funzionare perché rappresenta interessi divergenti di quella che, invece, dovrebbe essere una lobby per difendere il made in Italy e dedicarsi a far ripartire l’economia.

Un dilemma acuito, dopo l’elezione alla presidenza di Confindustria di Giorgio Squinzi l’anno scorso, che aveva suscitato l’ira funesta e sempre più manifesta della cordata, manifatturiera, che invece voleva eleggere Alberto Bombassei. Soprattutto in Veneto, dove il patron della Brembo viene considerato il presidente ombra di Confindustria, e sollecitato in continuazione a creare un sistema di relazioni industriali alternativo. E infatti è proprio in Veneto, dove si sta realizzando una sorta secessione interna, ma per il momento ancora morbida. Da parte di imprenditori che non escono ufficialmente dalle associazioni confindustriali territoriali, ma contemporaneamente stanno costruendo diversi network paralleli per aggregarsi e fare ciò che non riescono a fare dentro il dicastero confindustriale che, come ha sottolineato Guido Barilla su La Stampa, «con tremila addetti, frena ogni cambiamento».

Dopo la clamorosa rottura della Fiat seguita da quella di Fincantieri, per citare i casi più eclatanti, sono numerose le aziende che escono senza far rumore, ma mai completamente a onor del vero: Fiat è rimasta affiliata a Torino e Fincantieri ha rotto i rapporti con Confindustria solo a Genova e Gorizia, ma non nelle altre province in cui è presente. Un dato, questo, che i detrattori del sistema confindustriale omettono sempre. «Oppure tengono un piede dentro con una srl per pagare solo una quota di 1.500 euro e riuscire ad evitare di pagare le quote più onerose a una struttura elefantiaca, che ha un corpo enorme e la testa di un bambino», osserva in modo sarcastico Fabio Franceschi, presidente di Grafica Veneta, che ebbe la delega all’Innovazione e alla Ricerca nella Confindustria padovana e, quando due anni uscì da Confindustria, fece invece molto rumore. Soprattutto per la sua accusa a Confindustria di utilizzare modi “sovietici” per eleggere i propri rappresentanti, anche se oggi lo stampatore di Harry Potter (e di circa un milione di libri al giorno) minimizza: «Se non altro ho risparmiato i 50mila euro della quota che pagavo ogni anno», commenta in modo sarcastico. «In ogni caso», aggiunge, «se un imprenditore serio come Guido Barilla manda un messaggio così radicale, allora il gioco si fa serio», osserva.

Per Massimo Carraro, patron della Morellato, ora entrato anche lui nel forum di imprenditori Agire, guidato da Luigi Rossi Luciani, ex presidente della Confindustria veneta, rappresentarla come un organismo spaccato fra i buoni imprenditori manifatturieri e i cattivi che producono servizi è invece una lettura evangelica ed errata. «Sono tutti da cacciare dal tempio perché la Confindustria è una casta che vuole conservare se stessa. Noi lo dicevamo dieci anni fa che si poteva cambiarla dall’interno, come afferma oggi Guido Barilla, ma poi ci siamo arresi perché è stato impossibile. Ecco perché ho lasciato dentro la mia azienda, che è ancora affiliata, ma mi sono dimesso da tutte le cariche. E sbaglia chi demonizza l’assetto romano di Confindustria: troppo facile. Anche sul territorio la burocrazia cerca di conservare se stessa. E i veneti, prima di protestare devono cambiare i loro organismi rappresentativi. Smetterla di spartirsi le poltrone, abolire uffici provinciali, che sono superflui. Fosse per me abolirei pure la camere di commercio: inutili. Per non parlare delle missioni all’estero che sono state solo onerose escursioni turistiche. Si vuole difendere il manifatturiero? Sacrosanto, ma allora bisogna farlo con strutture agili e efficienti».

Una voce fuori dal coro? Mica tanto se nel forum di Agire, ci sono 70 imprese che, per superare il vetusto schema concertativo hanno cominciato appunto ad agire da soli. Come spiega il coordinatore di questo network veneto, Ferruccio Macola, imprenditore metalmeccanico e presidente di PadovaFiere. «Stiamo lavorando con tutti i sindacati per fare fronte comune e poi andare nelle imprese e fare assemblee con i lavoratori e difendere le nostre aziende. Il momento è drammatico e se non si tutela in modo efficace il settore manifatturiero, crolliamo tutti insieme: imprenditori e lavoratori. Non si può più tenere in piedi organismi di rappresentanza divisi per segmenti, le piccole imprese da una parte, le grandi da un’altra. Bisogna aggregare tutte le eccellenze e fare riforme che rilancino la competitività, abbiamo già perso troppe occasioni. I semafori rossi devono diventare verdi, altrimenti è tutto inutile».

Il mal di pancia veneto, in realtà, dilaga anche in tutte le altre regioni produttive del Nord, dove però le correnti avverse preferiscono lavorare nell’ombra. O, come in Lombardia, sperano di poter cambiare le storture confindustriali dall’interno. In Veneto invece, dove gli imprenditori amano l’iperbole e sono abituati a gettare il sasso nello stagno, almeno a parole, molti ammettono che si sta creando una frammentazione di sigle, network, strutture parallele di imprenditori, dentro e fuori Confindustria, che cercano di creare organismi rappresentativi fai-da-te. In nome del rinascimento del manifatturiero. E se Ferruccio Macola, coordinatore di Agire (a cui hanno aderito fra gli altri anche il presidente della Camera di commercio trevigiana, Nicola Tognana e l’ex-dirigente confindustriale Alessandro Riello) spiega a Linkiesta che hanno deciso di chiudere le porte ad altri imprenditori «per evitare di creare una Confindustria ombra», altri dicono che se ora qualcuno avesse il coraggio di creare un sindacato imprenditoriale alternativo, ci sarebbe una fuga di massa da Confindustria.

Chissà se è vero o se siamo di fronte alla solita litania italiana, alla guerra fra bande, e fra correnti, simili a quella che vediamo nella politica dei partiti. Sicuramente però ormai ci sono troppi imprenditori contrari alla Confindustria delle “larghe intese” che non riesce a muovere un passo fuori dalle sabbie mobili, perché frenata anche dai grandi gruppi, che forniscono servizi. «E dagli stessi imprenditori che, quando vengono eletti nel parlamentino romano, appoggiano il culo sulla sedia e si dimenticano delle esigenze delle imprese», dicono altri imprenditori, e non solo veneti. Che usano ormai toni cripto-grillini, strepitando contro la casta confindustriale, la burocrazia che conserva se stessa, la mancanza di trasparenza dei bilanci del parlamentino di Viale dell’Astronomia, che sperpera denari, senza saper difendere le aziende, senza approdare a nessuna riforma. Neanche della Confindustria stessa, che ha istituito una commissione apposita, senza produrre per ora neanche un documento, dicono i ribelli che hanno soprannominato in modo affettuoso Giorgio Squinzi “Forrest Gump”. Troppo ignaro, secondo loro, dei meccanismi confindustriali per riuscire a modificarli. Del resto basta leggere il blog del friuliano Gabriele Centazzo, designer e presidente di Valcucine che, quando uscì da Confindustria, comprò varie pagine di quotidiani per spiegare il suo gesto e sul blog oggi fa di conto per spiegare fino a che punto si è spinta la casta confindustriale: “Confindustria”, scrive, «ha gli stessi vizi della politica italiana; sprechi, troppe poltrone, zero investimenti, quasi totale consumo delle risorse nell’improduttivo sostegno dell’immenso baraccone. Composto da 267 organizzazioni con altrettanti direttori e autisti e Squinzi per non scontentare nessuno si è subito premurato, dopo la sua elezione, di nominare 11 vice-presidenti».

Chissà se è vero o se è solo il solito grido di guerra dei veneti, che producono pezzi di Pil, ma non riescono mai farsi valere. Incapaci di fare squadra e chissà perché sempre esclusi dai giochi. In ogni caso è indicativo che anche Massimo Colomban, che con Arturo Artom, ha creato ConfApri, la Conferenza permanente di esperti delle attività produttive italiane per un rinascimento italiano, e per mesi ha guardato al magma grillino, non è mai uscito da Confindustria.

L’ex patron di Permasteelisa, ora gestisce un resort di lusso sulle colline trevigiane, CastelBrando. E come tutti i ribelli ha lasciato la sua azienda in Confindustria, ma usa ConfApri come grimaldello «per scardinare il sistema». E ha creato un sodalizio con il guru del M5s, Roberto Casaleggio. Anche se guai a dirgli che è diventato grillino. Lui, che è stato vicino anche all’ex governatore Giancarlo Galan, ci tiene a precisare che ConfApri è semplicemente un’associazione contraria alla casta, al poltronificio, di cui Confindustria «è pilastro e stampella, a seconda delle convenienze», spiega a Linkiesta. Contrario anche lui al governo delle larghe intese di Viale dell’Astronomia, fa notare che gli esperti della ConfApri sono riusciti a far presentare diversi progetti di legge attraverso il M5s, che risolverebbero i problemi dell’economia italiana. «Con un piano di aiuti di 120 miliardi per le imprese, una soluzione per abolire l’Irap, rinunciando ai 31 miliardi di euro di sovvenzioni e agevolazioni statali, come del resto ha detto di voler fare anche il presidente Giorgio Squinzi. Io l’ho detto ai dirigenti confindustriali locali. Sono tutti a bordo di un treno, che ha deragliato e si avvicina al precipizio. Io sono sceso e sono salito su un altro treno con migliaia di altre imprese ormai pronte per saltare giù dal treno per non finire nel burrone. Anche perché gli imprenditori, vessati dalla pressione fiscale, dal costo del lavoro, devono pensare a far ripartire l’economia e invece mantengono il carrozzone confindustriale di cui tutti vorremmo vedere i bilanci, in nome della trasparenza».

E poi ci sono altri network creati anche da dirigenti confindustriali per aggregare aziende, fare investimenti, condividere know-how che ufficialmente sono realizzazioni di ciò che Confindustria predica, visto che il suo presidente veneto, Roberto Zuccato, è sempre stato piuttosto combattivo (consapevole di una necessità di cambiamento per difendere ciò che è rimasto in piedi del settore manifatturiero), ma in realtà sono network carbonari che agiscono svincolati dalle gabbie confindustriali. Con sigle che si ispirano tutte al rinascimento del manifatturiero.

Quasi uno stato nello stato, per usare una forzatura, da cui molti imprenditori, medi o piccoli che siano, vogliono, almeno a parole, staccarsi, per non alimentare un’oligarchia burocratica, che non è capace di fare lobby. E stanno creando una frammentazione di “liste civiche” create da élite di imprenditori per essere credibili davanti alla loro base, ma anche sul piede di guerra per una serie di diatribe interne locali, financo per motivi molto prosaici, e cioè evitare di pagare onerose quote alla Confindustria. Con network, associazioni parallele, (ora anche gli imprenditori metalmeccanici stanno pensando creare una loro organizzazione per difendere il loro di manifatturiero, pare) fondazioni, che hanno creato un paradosso. Quello della casta degli imprenditori, trasformati in benestanti garibaldini, che vogliono distruggere la casta dei propri rappresentanti per difendersi dal moloch burocratico che loro stessi hanno creato, sovvenzionato ed alimentato. Così è (solo) se vi pare. 

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