Doisneau, Helmut Newton, Luigi Ghirri e ora i grandi fotografi di Life: mostre di fotografie sbarcate nella capitale negli ultimi mesi, di grande pregio e ineccepibile bellezza, ma che potevano essere allestite anche venti anni fa, così classiche, composte infatti da immagini celebri e assodate nell’immaginario collettivo. Ma la classicità delle foto non è una sciagura, spiega John Loengard storico picture editor di Life nel volume pubblicato da Contrasto che accompagna la retrospettiva sugli autori e le immagini che hanno fatto del settimanale creato da Henry Luce nel 1936 un mito del fotogiornalismo: «Molte delle nostre foto restano impresse nella memoria e diventano veri classici. Per quale motivo? Credo perché conservano la capacità di sorprendere. La parola scritta diventa rapidamente obsoleta: una notizia vecchia è un ossimoro. Invece le fotografie vecchie continuano a richiamare la nostra attenzione, e credo sia proprio questo lo spartiacque tra le ambizioni dei fotografi e quelle dei giornalisti. L’ambizione di creare opere che non perdano mai d’interesse, è la base portante di questo lavoro».
Quello che oggi è scontato, l’importanza del fotogiornalismo, non lo era ai tempi di una rivista nata per dare visione alle notizie. Life arrivò a vendere milioni di copie, con servizi prima in bianco e nero poi anche a colori perchè aveva come missione permettere ai lettori di dare un volto ai protagonisti delle notizie, «una fisionomia riconoscibile alla propria sterminata terra americana, un profilo e un orizzonte alle esotiche mete di viaggio o di guerra». Lo staff di Life raggiunse le 90 unità: «eravamo tutti invididualisti e come i ragni non ci incontravano tanto spesso» raccontava Alfred Eisenstaedt uno dei decani, «quando non eravamo al lavoro, quando insomma ci trovavamo in giro per l’ufficio, eravamo come pesci fuor d’acqua».
Negli anni Settanta Life entra in crisi scavalcata dalla televisione, non basteranno dieci numeri speciali in cinque anni per riportarla ai fasti. Gli archivi di Life oggi sono online e anche in partnership con Google dal 2008. Guardando e riguardando dal vivo le 150 immagini della mostra allestita nel nuovo spazio AuditoriumExpo dell’Auditorium Parco della Musica di Roma (aperta da lunedì 2 maggio fino al 4 agosto), si riscopre intatta la forza di quella enorme palestra giornalistica che è stata Life, fotografando gli anni Trenta della Depressione, gli anni Quaranta, la Seconda guerra mondiale, il difficile dopoguerra, il Vietnam.
Molte delle foto diventate col tempo icone non hanno perso smalto, alcune vengono dall’archivio Life, altre da collezioni private, aumentandone il fascino e la suggestione. Tantissime foto hanno alle spalle oltre i provini anche una sequenza di foto pubblicate di cui poi simbolicamente se ne è scelta una e che avrebbe meritato nell’esposizione una didascalia più ampia proprio per raccontare la selezione.
Gli alfieri della mostra sono Margaret Bourke-White, Larry Burrows, Cornell Capa, Robert Capa, Ed Clark, Ralph Crane, Loomis Dean, John Dominis, Eliot Elisofon, Bill Eppridge, J.R.Eyerman, Alfred Eisenstaedt, Andreas Feininger, Albert Fenn, Fritz Goro, Martha Holmes, Yale Joel, Dmitri Kessel, George Lacks, Lisa Larsen, Nina Leen, John Loengard, Thomas McAvoy, Leonard McCombe, Gjon Mili, Francis Miller, Ralph Morse, Carl Mydans, John Olson, Gordon Parks, Bill Ray, George Rodger, Michael Rougier, Joe Rosenthal, Walter Sanders, Paul Schutzer, John Shearer, George Silk, George Skadding, Eugene W. Smith, Howard Sochurek, Peter Stackpole, Hank Walker.
Linkiesta ne ha scelte cinque.
Bill Eppridge
Nella tarda sera del cinque giugno del 1968, il cameriere dell’Hotel Ambassador di Los Angeles Juan Romero si ritrova a fianco del corpo del senatore Robert Kennedy colpito a morte, una maschera rigida e semi-cosciente raggiunta da tre colpi di pistola. Mentre tutto intorno a Romero, invisibile, c’è l’entourage del candidato democratico e gli addetti ai lavori dell’albergo, emerge dal buio la livrea bianca del cameriere che tiene la mano a Kennedy in completo scuro che affonda in un lago di sangue. Kennedy viene assassinato dal giordano Sirhan Sirhan dopo un comizio mentre passa dalle cucine per recarsi a una conferenza stampa in un’altra sala dell’hotel. Ad aprile era stato assassinato Martin Luther King, cinque anni prima il fratello John Fitzgerald. Intorno a questa foto Emilio Estevez nel 2006 ha girato il film «Bobby».
John Shearer
Per una volta l’irriverente e spaccone Muhammad Alì, «l’unico boxeur della storia cui la gente faceva domande come se fosse un senatore» (secondo Norman Mailer), non è in primo piano ma urla sfottendo il rivale Joe Frazier dall’altra parte del vetro durante gli allenamenti nel marzo del 1971 che porteranno alla sofferta vittoria di Frazier ai punti. C’è già in questo scatto il dualismo di due mondi agli antipodi: «Clay era l’uomo di rottura, Frazier il nero integrato. Chiassosi tutti e due a modo loro. Clay linguacciuto, dispettoso, irritante. Frazier soltanto abrasivo, ma variopinto nel modo di vestire, un po’ pacchiano, sfolgorante nei colori, ingioiellato quanto una madonna: alle mani portava anelli e brillanti grossi come noci, al collo una catena d’oro sosteneva una corona, simbolo del suo sentirsi re» (Riccardo Signori, «Diavoli e pugni», Limina). Nel primo combattimento, al Madison Square Garden, c’è Frank Sinatra a fare il fotografo per Life. 20.455 persone paganti, 1.352 dollari d’incasso. Il primo di tre match per cui entrambi rischiarono la vita sul ring.
Alfred Eisenstaedt
In strada ci sono due milioni di persone, lo scatto della Leica di Eisenstaedt che finirà su Life ha la stessa energia di «In the mood» di Glenn Miller: finalmente gli Stati Uniti sono fuori dal tunnel della guerra. Il bacio della Vittoria, quello tra un marinaio e un infermiera immortalato per strada il 14 agosto del 1945 a New York a Times Square è oggi una immagine riprodotta in tutte le salse, stracitata dai musical fino ai Lego. È un bacio che esprime letteralmente «la gioia di una nazione nel momento del trionfo» come racconta Hans Michael Koetzle in «50 photo icons. The Story Behind the Pictures» (Taschen). Per accreditarsi come marinaio e infermiera c’è sempre stata la fila. Eppure l’esuberanza del bacio è stata contestata di recente da un sito femminista americano. Una stampa realizzata nel 1988 e firmata dall’autore verrà messa sarà messa all’asta da Westlicht il 24 maggio, prezzo di partenza novemila euro.
Robert Capa
L’immagine mossa più famosa del mondo è quella del marine sbarcato con la prima ondata nella carneficina di Omaha Beach. Al seguito c’erano anche Capa e Landry di Life, ma la pellicola di Landry finì in fondo al mare con le sue scarpe. La maggior parte degli scatti di Capa fatti a Omaha, ben quattro rullini (108 foto), finirono bruciati Life a Londra in camera oscura per troppa fretta. La fretta era dovuta al fatto di dover chiudere il numero rigorosamente sabato dieci giugno, le distanze erano enormi: il sette giugno si ebbe notizia di Capa da Omaha, da qui i rullini dovevano tornare a Londra, essere stampati, approvati, autorizzati dalla censura e recapitati a un corriere che li avrebbe portati in aeroporto destinazione Scozia per il volo transoceanico con due scali fino a Wahsington per poi essere recapitato a mano nella sede di NY. La consegna riuscì per un soffio, come racconta il celebre photoeditor John G. Morris nelle sue memorie da photoeditor «Get the picture» (Contrasto). Eppure a quelle undici foto mosse, uniche sopravvissute agli errori di un giovane collega di Capa, sono rimasti aggrappati per decenni i ricordi dei reduci, fino al «Soldato Ryan» di Spielberg che ha dato vita alla nuova stagione di memorialistica sullo sbarco in Normandia, influenzando il mondo videogame di Call of Duty e Medal of Honor.
Larry Burrows
È una delle rare foto a colori della mostra, se non a memoria l’unica, non a caso proprio con Burrows la forza e lo shock del colore entrano di prepotenza nel fotogiornalismo. È l’ottobre del 1966 in Vietnam, ci sono stati sanguinosi combattimenti per la conquista e il mantenimento della collina 484. Quattro soldati americani portano disperatamente un ferito grave su un elicottero che non si vede ma vede l’erba alta è schiacciata dal vento delle sue pale. Per molte generazioni questa foto ha simboleggiato l’orrore e il disastro dell’intervento in Vietnam. Come Capa in Indocina nel 1954 saltando su una mina così Burrows muore nel Laos nel 1971 abbattuto in elicottero. Malgrado tutta la letteratura e i film sulla guerra in Vietnam la serie di foto di Burrows che ruotano intorno a questa immagine mantiene ancora intatto il suo tragico resoconto.