Il 27 maggio Henry Kissinger compie 90 anni. Gli accademici non gli hanno mai perdonato la capacità di mettere in pratica secoli di teorie sulle relazioni internazionali – si vedano le pedanti, feroci recensioni al suo ultimo libro sulla Cina. Kissinger, invece, non ha mai odiato l’accademia: finita l’esperienza nella seconda guerra mondiale – servì nell’intelligence durante le Ardenne e nella Germania riconquistata dagli americani – entrò ad Harvard e nel giro di pochi anni riuscì a concludere laurea, master e dottorato in relazioni internazionali nel 1954. Una leggenda narra che la sua meravigliosa tesi di dottorato («A World Restored», sulle negoziazioni del Congresso di Vienna dopo l’epopea napoleonica) fosse così lunga da spingere l’Università a imporre un limite nel numero di pagine. Otto anni dopo diventò professore ordinario, sempre presso la stessa Università.
Tra il 1962 e la sua nomina a Consigliere per la sicurezza nazionale da parte del repubblicano Richard Nixon intercorsero numerose cariche di alto livello tra think-tank e istituti di ricerca. Uscito dall’accademia – almeno come lavoro principale – Kissinger poté esprimere appieno quella sua «diversità» che lo aveva sempre caratterizzato anche ad Harvard. Ha dichiarato nel 2008: «Quando ero un giovane professore ad Harvard negli anni Cinquanta, il 99,9% della facoltà era costituita da democratici – mi ricordo solo di un repubblicano che conoscevo».
In poco tempo riuscì a costruirsi una fama di persona intelligentissima, con pochi scrupoli, e terribilmente vanesia. Viaggiava il mondo a ritmo tale, che i media iniziarono a postulare l’esistenza di cinque Henry Kissinger – che veniva anche chiamato «il vero presidente». Introdusse la strategia della «détente» in funzione anti-sovietica: intensificare i rapporti con la Cina per indebolire Mosca. Si fece pochi scrupoli nel quadrante del Sud Est asiatico, con l’eredità pesante dell’intervento in Vietnam. All’inizio cercò la vittoria, bombardando a tappeto la Cambogia che forniva supporto logistico al Vietnam del Nord. Più tardi, a guerra persa, negoziò gli accordi di pace e vinse un Nobel tra i più improbabili della storia.
In nome della Realpolitik, Kissinger – di famiglia ebraica tedesca e nato in Germania – s’interessò assai poco al trattamento che l’Unione Sovietica riservava agli ebrei. Golda Meir, premier israeliano, ne fu sempre delusa. Nel 2007 è venuto fuori che Kissinger per tre ore e mezza tenne nascosta a Nixon la notizia dell’esplosione della guerra dello Yom Kippur, quando Egitto, Siria e Giordania attaccarono Israele. Voleva «fare in modo che non interferisse»; poi volò a Mosca a negoziare la pace, non prima di aver organizzato un ponte aereo per rifornire Israele di armi – visto che il ministro della Difesa Moshe Dayan aveva annunciato la fine imminente del Paese. Non si dimentichi l’esperienza in America Latina: Kissinger ha non poche responsabilità dietro alla compiacenza americana per l’ascesa al potere di Pinochet in Cile e Videla in Argentina.
Leggendari i suoi aforismi. «La cosa bella di essere famoso è che se annoi qualcuno, pensano sia colpa loro» (1972). «Non ci può essere una crisi la prossima settimana: ho l’agenda piena» (1969). «Il potere è il miglior afrodisiaco» (1973) – quest’ultima in risposta alle continue domande sul suo successo (vero o presunto) con dive del tempo: Zsa Zsa Gabor, Gina Lollobrigida, Barbara Walters e tante altre. Colse questo aspetto Oriana Fallaci, che con l’adulazione superò lo scudo dell’intelligenza. Lo portò da solo verso ciò che Kissinger stesso definì «la più disastrosa conversazione che abbia mai avuto con un membro della stampa». Andò pressappoco così: «Perché gli americani sono così affascinati da un giovane uomo di Fürth, nella regione tedesca della Franconia, che scappò dai nazisti all’età di quindici anni?»; «Ho sempre agito da solo. Gli americani lo amano immensamente. Gli americani amano il cowboy che guida la diligenza cavalcando davanti da solo sul suo cavallo».
È stato sufficiente per farlo odiare dai più, ancora di più. Si è detto di lui che «mente con la normalità con cui gli altri respirano». Christopher Hitchens gli dedicò un libro (The Trials of Henry Kissinger) in cui proponeva di farlo giudicare per crimini contro l’umanità. Alla notizia di avere un cancro terminale, Hitchens si rammaricò di dover morire prima di lui. Lui si è sempre difeso sostenendo che la sua politica aveva lo scopo di assicurare il successo degli Stati Uniti, e non che gli americani fossero amati in tutto il mondo.
Il suo pensiero era già maturo ai tempi della tesi di dottorato: per Kissinger le relazioni internazionali si basano su legittimità ed equilibri. L’Austria imperiale e l’Inghilterra volevano contenere la Germania tra la Francia e la Russia; e l’Austria, con tutte le sue nazioni (era ancora l’Impero Austro-Ungarico) non poteva permettersi nuove epopee nazionaliste. La legittimità si basa sul potere, e per questo all’incipit del libro ha regalato uno dei passaggi più importanti della teoria diplomatica di oggi.
«Il conseguimento della pace non è così semplice come il desiderio per essa. Non per niente la storia è associata con la figura di Nemesi, che distrugge l’uomo soddisfacendo i suoi desideri in altra forma o rispondendo troppo completamente alle sue preghiere. Quelle epoche che in retrospettiva sembrano più pacifiche furono quelle che meno cercavano la pace. Quelle in cui la ricerca di essa sembra senza fine sembrano le meno adatte a raggiungere la tranquillità. Ogni qualvolta la pace – intesa come evitare la guerra – è stata l’obiettivo primario di un potere o di un gruppo di poteri, il sistema internazionale è stato alla mercé dei membri con meno scrupoli della comunità internazionale. Ogni qualvolta l’ordine internazionale ha accettato che certi principi non potessero essere trascurati neanche in nome della pace, la stabilità basata sull’equilibrio di forze è stata almeno possibile».
Ha scritto anche che «la logica della guerra è il potere, e la logica della pace è la proporzione». Se la pace è «l’assenza di guerra», la pace è possibile solo con la presenza di una potenza egemone, che produce legittimità. Questa legittimità per Kissinger non è «giustizia», ma il riconoscimento di un ordine di principi. Per Kissinger, un accordo di pace internazionale accettato e non imposto parrà in qualche modo ingiusto, perché se una nazione è completamente soddisfatta, allora le altre non lo saranno – e potrebbe seguire una situazione rivoluzionaria. Questa insoddisfazione è quindi condizione di stabilità, sempre che l’insoddisfazione stessa non sia eccessiva.
Kissinger trattò l’Unione Sovietica come la Russia degli zar, e si mise nel ruolo di Castlereagh. Alla Cina fece giocare la parte dell’Austria-Ungheria, e così cambiò la posizione relativa di ordine nella Guerra Fredda. Nixon fu invitato a Mosca per colloqui da Brezhnev – e ricambiò con un invito nella sua in California, «La Casa Pacifica» di San Clemente. Kissinger è l’intelligenza diplomatica e l’espressione più assoluta del potere che trascura il contingente per i fini ultimi. Ha rappresentato la violenza stessa del potere, con un elitismo che si considerava superiore alla massa – Kissinger non ha mai partecipato a elezioni. Kissinger al potere è stato gli Stati Uniti, nel bene e nel male, tra Pinochet e la caduta sovietica.