La Cina fa le scarpe per tutti. In Africa

Aziende cinesi producono in Etiopia, Kenya, Lesotho e Madagascar

Parola d’ordine: industrializzazione. La seconda economia al mondo, la Cina, guarda da tempo con attenzione a ciò che accade (o non accade in Africa). Fino ad ora intensi scambi commerciali, costruzione di grandi opere, sfruttamento minerario. Ma la crescita del costo del lavoro in Cina e al contrario il basso costo della manodopera africana potrebbero essere un fattore cruciale per i prossimi anni.

Tra gli esempi quello della cinese Huajian Group, che produce scarpe per gruppi come Guess e Tommy Hilfiger. La fabbrica sorge a sud di Addis Abeba, Etiopia e realizza 20 milioni di paia di scarpe l’anno. Cinquecento operai in tutto, la metà cinesi, l’altra metà etiopi. Lo stesso gruppo sta pianificando un’espansione del sito produttivo. Ma l’Etiopia non è l’unico esempio. In Kenya, Lesotho e Madagascar per esempio vi sono aziende cinesi che operano nel tessile e nell’abbigliamento.

Eppure restano ancora ostacoli all’espansione cinese nel continente. Gli annosi problemi africani: la generale mancanza di infrastrutture, di strade, di linee ferroviarie, di linee aeree con standard di sicurezza accettabili. E poi c’è il problema dell’elettricità che in molte aree non è disponibile se non sotto forma di generatori. Senza contare il problema della sicurezza in alcune vaste regioni.

Di contro, i paesi africani sono giovani, giovanissimi. E sul lungo termine la leva demografica è un formidabile e positivo fattore x. Per la forza lavoro, per l’espansione del mercato interno. Sempre che le economie crescano, beninteso. E che si apra il mercato del lavoro con nuove opportunità. Se la Cina delocalizzerà massicciamente potrà creare posti di lavoro per gli africani.

Neocolonialismo? L’economista Dambysa Moio, alfiere dell’orgoglio economico africano, quella che tuonò contro gli aiuti di stato al Continente, respinge l’etichetta in una recente intervista alla Cnn. «La Cina è in grado di trasformare l’Africa», dice la Moio. Insomma, l’Africa ha bisogno di investimenti e la Cina ha i soldi. Basti pensare ai cinque grandi cantieri di Joseph Kabila in Repubblica Democratica del Congo (strade, autostrade, acqua, elettricità, scuole), o l’autostrada est-ovest in Algeria. Ma anche il grande stadio di calcio di Kinshasa.

Non solo infrastrutture. La Terza più grande moschea al mondo viene costruita ad Algeri dalla China state construction engineering corporation (Cscec). Djamaâ El Djazaïr, un miliardo di euro di investimento. Un cantiere con 17mila operai, di cui ben 7 mila cinesi, tanto da scatenare il malumore degli algerini. E qui si tocca uno dei punti centrali del futuro cinese in Africa. Perché le imprese cinesi – che sono quasi sempre pubbliche, ma sempre più spesso si affacciano anche le private, per quanto difficile resti tracciare i confini – saranno le benvenute in Africa solo se la delocalizzazione sarà accompagnata dalla formazione e dal crescente impiego di manodopera locale.

In una intervista al settimanale Jeune Afrique, Carlos Lopes, segretario generale della Cea, la Commissione economica delle Nazioni Unite per l’Africa ha commentato i dati dell’ultimo rapporto pubblicato dall’organizzazione: per industrializzarsi il continente deve puntare sulle sue materie prime, agricoltura e risorse minerarie, senza puntare a costose e lunghe diversificazioni. Ricetta semplice ed efficace: stressare i punti di forza.

In questi giorni il neo presidente cinese Xi Jinping ha fatto un tour proprio in alcuni paesi africani (Tanzania, Africa del Sud e Congo-Brazzaville) per rafforzare i legami con il continente. In generale, come abbiamo già scritto su Linkiesta, l’approccio africano è estremamente efficace. La Cina non vuole sindacare sulle questioni politiche, parla con Jacob Zuma come con Robert Mugabe, con Omar al-Bashir come con Joseph Kabila. Con chi cambia la costituzione per farsi rieleggere, come con chi è ricercato dalla Corte penale internazionale, «business is business». E solo così il made in Cinafrica potrà decollare.

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