«Ogni alunno è una storia che si compie». Alessandro D’Avenia, autore di Bianca come il latte, rossa come il sangue e Cose che nessuno sa, insegna Italiano e Latino al collegio San Carlo di Milano. Ha un sito, Prof 2.0, dove raccoglie le sue riflessioni da insegnante. Lo abbiamo intervistato sulle sfide che la scuola italiana sta affrontando, tra referendum sulle paritarie, polemiche sull’insegnamento in inglese al Politecnico di Milano e la recente provocazione di Eco all’Università di Burgos («l’università torni a essere solo per le elite»). Ci ha risposto così: «L’Italia non ha niente da invidiare a nessuno come contenuti e percorsi didattici. Quello che manca è un approccio vocazionale allo studio». L’intervista.
A proposito di scuole statali e scuole paritarie, dopo il referendum di Bologna: il sistema integrato italiano ha ancora una sua validità? O nasconde invece un vantaggio incongro che lo Stato garantisce alle strutture private?
Se non ci fossero le scuole paritarie nessun giovane potrebbe insegnare. Tutta la mia generazione per cominciare ad insegnare deve andare nelle scuola paritarie. Forse non sappiamo che le graduatorie sono chiuse da anni? Forse non sappiamo che l’unico criterio di merito nella scuola statale attualmente è l’anzianità? L’età media del docente di scuola statale è compreso tra i 50 e i 54 anni. Il problema è molto più profondo e non è quello posto dal referendum di Bologna sui soldi comunali alle materne private: le scuole paritarie risolvono problemi di posti scuola (sia per i docenti che per gli alunni) che lo Stato non riesce a coprire. Va ripensato tutto il sistema di reclutamento dei docenti nella scuola. Ragionare in termini di privato-pubblico è essere ancorati ad un modello superato. Chi vive e lavora a scuola lo sa.
Cosa vorrebbe dire eliminare le paritarie? E come si supera lo schema pubblico-privato?
Significa mandare a casa quasi tutti i nuovi insegnanti, che lo Stato né può assumere né può pagare. Va pensata una scuola libera e gratuita per tutti, ma il modo non è certo bloccare ciò che funziona e che tiene il sistema momentaneamente in equilibrio. Lo Stato spende 43 miliardi di euro per la scuola statale e 1 per la non statale, con 7 milioni di studenti nella prima e 1 nella seconda. Non bisogna essere matematici per capire che se quel milione di studenti viene spostato alla statale quel miliardo diventa 5-6-7 volte tanto. Da dove li prende lo Stato? E dove finisce tutta la fascia di insegnanti di 30-40 anni che la scuola statale dovrebbe assorbire? Quel miliardo sottratto alla scuola non statale nella situazione attuale finirebbe per aggravare i problemi anziché risolverli. È una soluzione di retroguardia, non d’avanguardia.
D’Avenia, il nostro sistema scolastico italiano, per come è organizzato, permette agli studenti di sviluppare il loro potenziale?
Questo è il punto centrale della debolezza della scuola italiana nel contesto storico attuale. La scuola è sempre stata un po’ fuori tempo e va bene così, non deve preparare immediatamente ma mediatamente al mondo del lavoro, perché è vera palestra di conoscenza di se stessi. Molti ragazzi però finiscono un percorso durato ben 13 anni e non sanno che facoltà universitaria scegliere o non sanno se è bene far altro rispetto all’università. Lo trovo intollerabile dopo 13 anni di studio. E cosa abbiamo fatto con te per 13 anni? Ti abbiamo riempito di nozioni, ti abbiamo addestrato a fare dei test e delle prove e non ti abbiamo aiutato a conoscere i tuoi punti forti e i tuoi punti deboli? È paradossale. Non abbiamo niente da invidiare a nessuno al mondo come contenuti e percorsi didattici. Lo dico per esperienza dopo aver conosciuto sistemi educativi stranieri e aver fatto un corso di aggiornamento in una delle migliori scuole americane. Quello che ci manca invece è proprio l’approccio vocazionale e opzionale allo studio.
Come dovrebbe cambiare allora la scuola italiana?
L’alunno è una storia che si compie. Se siamo capaci di coltivare un seme, come è possibile non farlo con l’umano? Come è possibile riuscire persino a rovinare quelle qualità? Serve un maggiore coinvolgimento dei ragazzi nella scelta dei percorsi, che devono avere alcuni elementi comuni, forti, non opzionali. Serve inoltre un lavoro di equipe dei docenti, che oggi in Italia sono ottimi solisti. Ognuno va per conto suo (e vorrei vedere con tutto il lavoro che c’è da fare e lo stipendio da miseria…), ma alla crescita del ragazzo nel suo percorso storico non ci pensa nessuno. I genitori andrebbero coinvolti molto di più. Sono loro a conoscere quella storia e a chiedere ai docenti di incoraggiarla, sostenerla, accompagnarla, sfidarla.
Dopo il recente dibattito sull’uso esclusivo dell’inglese nei corsi specialistici e dei dottorati al Politecnico di Milano: crede abbia senso imporre lezioni solo in inglese in un Paese dove si assiste al cosiddetto fenomeno «dell’analfabetismo di ritorno»?
Quella dell’inglese la considero per lo più una moda per avere più iscrizioni, ma ci sono aspetti anche positivi. I ragazzi di oggi conoscono le lingue molto meglio della mia generazione. Arrivano all’ultimo anno di liceo e sanno parlare l’inglese. Nel classico che ho frequentavo io l’inglese si studiava solo fino al biennio. Non vedo niente di male nel fatto che all’università si studino parti della propria disciplina in lingua, cosa che prepara ad acquisire il lessico tecnico necessario a confrontarsi con un mercato del lavoro che non può più essere pensato esclusivamente entro confini nostrani. Dobbiamo preparare i ragazzi ad affrontare la ricerca di lavoro a livello globale. L’analfabetismo di ritorno è qualcosa su cui lavorare a scuola: educando alla lettura anche una volta finito il percorso scolastico. All’università è troppo tardi.
L’altro giorno Umberto Eco nella sua lectio magistralis all’Università di Burgos ha denunciato la deriva di massa dell’università italiana chiedendo un ritorno alla sua funzione originaria di selezione di elite e di classi dirigenti. Concorda con questa tesi?
Eco parla da professore universitario. Comprendo il suo punto di vista, che è anche provocatorio come da par suo. Se però facesse un giro nella scuola italiana di oggi vedrebbe un altro lato del problema. La formazione tecnico-professionale è spesso un deposito di frustrazioni sociali (e girando per l’Italia ho visto realtà di eccellenza in scuole paritarie ispirate da carismi orientati soprattutto alla dignità del lavoro manuale, dovrebbe far riflettere). Se riqualificassimo quel tipo di formazione moltissimi ragazzi si avvicinerebbero al loro talento più e meglio, senza lasciarsi illudere dal così fan tutti universitario. Ma il discorso di Eco è già obsoleto. I giovani sanno che oggi il paradosso è che più studi e meno lavori. L’università è diventata autoreferenziale, sembra fatta più per i professori che per gli studenti. Infatti tantissimi si accontentano della laurea triennale e poi fanno un master o cercano altro che li introduca presto nel mondo del lavoro. Il discorso di Eco paradossalmente tradisce il vero problema dell’università che ha perso qualità, aprendo facoltà di ogni tipo e in ogni luogo, pur di dare cattedre a persone senza arte né parte e si è calata le braghe davanti al sistema 3+2 che ci è stato imposto dalla prassi delle facoltà tecniche di marca anglosassone. Quella selezione di cui Eco parla c’è: molti fuggono nelle università che garantiscono la qualità, spesso fuori dall’Italia. Chissà come mai…