La Silicon Valley non ha preso Washington sfilando sotto l’arco di trionfo. Non ha organizzato marce di conquista né ha annunciato la fine dell’ethos della capitale in nome del mood illuminato e trasparente che promana dal centro del potere tecnologico. Si è piuttosto immersa nella zona grigia dei lobbisti, dei faccendieri, dei facilitatori di affari che tengono in vita il complicato meccanismo del potere americano. Ne ha assunto le sembianze e ne ha mutuato il linguaggio, con grande disappunto di chi voleva la California degli Zuckerberg e degli Schmidt come un contropotere illuminato e impermeabile ai vizi della capitale. Più che una conquista è stata un’assimilazione.
Negli ultimi mesi la presenza dei grandi player tecnologici nello spazio della politica si è fatta più intensa: Google negozia con la Corea del Nord l’accesso alla rete, Facebook fa pressione sul Congresso per approvare la riforma dell’immigrazione, Apple apre un canale di dialogo con i cinesi sulle condizioni di lavoro degli operai. Sono attività di pressione che tradizionalmente competono alla politica e all’arte diplomatica, ma la Washington di oggi – al pari di tante capitali occidentali – sembra troppo lenta e ingessata per affrontare le sfide globali con il tempismo necessario. Dove non arriva l’apparato politico ci pensa la grande macchina tecnologica, con i suoi canali e i suoi strumenti di pressione che sempre più spesso si sovrappongono e tendono a sostituire quelli legati ai governi.
L’ultimo libro di Eric Schmidt e Jared Cohen – il primo direttore esecutivo di Google, il secondo ex diplomatico responsabile di Google Ideas – “The New Digital Age” è una visione del futuro fatta non soltanto di automobili che si guidano da sole e materassi che ci svegliano al momento giusto nel ciclo del sonno, ma anche di democrazia digitale e conquiste civili 2.0. “Lean In”, il manifesto della Coo di Facebook, Sheryl Sandberg, è un dettato antropologico e sociale, un manuale di leadership per il terzo millennio rigorosamente declinato al femminile. Il popolo dei marziani in infradito venuti dalla California sta allargando il suo raggio d’azione, e quando incontra i logoranti meccanismi terrestri si adegua in fretta.
Le grandi aziende della Silicon Valley hanno investito centinaia di milioni di dollari per aprire uffici nella capitale. Sono quasi tutti nei palazzi di K street, la via dei lobbisti infestata da quel tipo umano incravattato che il nerd della California aspira a soppiantare, e a forza di convivere si è creata naturalmente una situazione di compromesso. La prima vittima sacrificale è stata la trasparenza. L’associazione Fwd.us fondata da Zuckerberg e da altri pezzi grossi della tecnologia (spuntano i nomi di LinkedIn, Netflix, Instagram e ovviamente la Microsoft di Bill Gates) è una non-profit, e in quanto tale non ha l’obbligo di mostrare i libri dei conti al fisco americano.
La condizione per l’esistenza di queste associazioni è che non si dedichino esclusivamente alla pressione politica, mentre Fwd.us è stata creata esattamente con lo scopo di convincere i membri del Congresso a votare una riforma dell’immigrazione gradita ai giganti della Silicon Valley e incidentalmente anche al partito democratico, universo di riferimento degli attori tecnologici. Per evitare gli impedimenti formali Zuckerberg ha fatto quello che tutti fanno a Washington: ha creato un sistema di scatole cinesi, ha coniato associazioni satellite, ha usato dei prestanome come si usa fare da tempo immemore in quella zona grigia dove si gestisce il potere della capitale, l’opposto logico del sole californiano e del mito della caverna digitale.
Dietro al cartello di Fwd.us si nascondono associazioni-civetta come la Americans for Conservative Action e il Council for American Job Growth, agglomerati dalle sembianze conservatrici che criticano le politiche del presidente Obama e sostengono la creazione dell’oleodotto Keystone XL, fumo negli occhi per quella lobby ambientalista che in un immaginario quartiere ideologico vivrebbe nella porta accanto a quella di Zuckerberg. Non c’è alternativa: per contare a Washington bisogna giocare secondo le regole di Washington. Anche a costo di perdere la verginità e di fare imbestialire gli alleati. Una galassia di associazioni della sinistra liberal (su tutte MoveOn.org e il Sierra Club) ha messo in piedi una campagna di boicottaggio pubblicitario di Facebook quando ha scoperto che Zuckerberg usa gli stessi espedienti para-lobbistici e vagamente sinistri dei fratelli Koch o di un Karl Rove, simboli viventi di un modo vecchio e opaco di fare politica.
Le emanazioni politiche della Silicon Valley sono sempre associate a un impeto rivoluzionario, in teoria. I nerd geniali e miliardari vogliono detronizzare il vecchio e innalzare il nuovo, sono rottamatori politici dotati di quel senso apocalittico che soltanto il culto della rete sa infondere, ma quando entrano nelle stanze del potere scoprono che lo status quo paga più dividendi della rivoluzione. E diventano di colpo maestri democristiani del pallottoliere, spartitori del potere con l’algoritmo Cencelli.