La vera identità di Israele, stato laico in evoluzione

65 anni fa Ben Gurion annunciava la nascita di Israele

«Comunemente si vede Israele in due modi. Il primo si concentra sui suoi successi. Ha dato agli ebrei rifugio e sovranità nel proprio paese. […] Il secondo ritratto è di conflitto – di attacchi terroristici contro gli israeliani, ma anche di blocchi stradali, muri, insediamenti, e offensive Israeliane a Gaza e in Libano». (Gershom Gorenberg, The Unmaking of Israel, 2011)

«Criticare Israele non è antisemitismo, e affermare ciò è vile. Ma accusare Israele d’infamia e applicare sanzioni internazionali – oltre ogni proporzione rispetto a qualsiasi altro soggetto in Medio Oriente – è antisemitismo, e non dirlo è disonesto». (Thomas Friedman, 2002)

«La parola chiave è “interesse”. Un interesse comune. È questa la garanzia perché l’accordo siglato da Israele e dai palestinesi abbia successo. Entrambi i popoli lo hanno firmato perché hanno capito di non avere scelta. Dopo decenni di massacri reciproci si sono rassegnati all’idea che, se non vivranno l’uno a fianco dell’altro, moriranno insieme in un gorgo che risucchierà l’intera regione» (David Grossman, 1993)

Israele non è nato da un’idea, ma da molte idee. Tra i coloni che si iniziarono a trasferire nel territorio a partire dal tardo diciannovesimo secolo c’era di tutto: il “sionismo” per molti non era un’ideologia, ma un progetto; e le ideologie sioniste erano molteplici, spaziando dal comunismo, alla democrazia, fino a esperimenti comunitari senza chiaro orientamento. Israele nella sua storia si è sempre contraddistinto più per i contrasti politici, che per l’unità – anche se è stata proprio l’unità a consentirne la sopravvivenza nei momenti più drammatici, come l’attacco subito su tre fronti nel giorno dello Yom Kippur del 1973.

Israele e lo spirito del contrasto: questo aspetto è stato presente anche nelle settimane che hanno seguito la sua dichiarazione d’indipendenza, il 14 maggio di sessantacinque anni fa. Ben Gurion, nato nel 1886 nel Regno del Congresso (la Polonia come stato vassallo dell’impero russo) guidava il governo ad interim e stava radunando tutti i gruppi combattenti ebraici sotto la guida comune delle Forze di difesa Israeliane. Il più grande dei questi gruppi, l’Irgun, aveva un punto di vista particolarmente oltranzista sulla presenza israeliana: quella del “sionismo revisionista”, che ha avuto una forte influenza sulla destra laica israeliana.

Parte dell’Irgun non voleva adeguarsi al progetto di Ben Gurion. Continuava a ricevere finanziamenti attraverso un quartier generale a Parigi, e tentò di mantenere segreto l’arrivo di una nave carica di armamenti, l’”Altalena”, che raggiunse la spiaggia di Tel Aviv il 20 giugno del 1948. Si arrivò al confronto, che fu risolto solo con l’affondamento della nave. Il leader dell’Irgun era Menachem Begin: nel 1977 sarebbe diventato primo ministro, dopo aver fondato il Likud, il partito storico della destra. Ben Gurion fu il primo premier del paese.

Nel patchwork di ideologie e culture che popolavano il paese appena fondato, si è imposta fin da subito l’urgenza di creare una nazione come “cultura di appartenenza”. Come notano molti, Israele è stato quindi un “esperimento nazionalista” esemplare, e forse il più riuscito della storia recente. L’idea nazionale israeliana si distingue dall’ebraismo, e incarna in sé idee di resistenza e uno spirito democratico evoluto. Sono state cercati fin da subito simboli che potessero rappresentare il nuovo spirito nazionale, e uno di essi era la rocca di Masada, sul Mar Morto. Qui alcuni ebrei zeloti si rifugiarono dai romani e resistettero fino a un feroce assalto finale.

Le reclute dell’esercito israeliano venivano condotte a Masada giurando «Metzadà shenìt lo tippòl» («Masada non cadrà mai più»). Si è arrivati spesso a estremi ideologici – e qui c’è un altro contrasto culturale interno: alcuni “nuovi israeliani” nutrivano sentimenti quasi di disprezzo per i sopravvissuti ai campi tedeschi, perché non erano riusciti a resistere ai tedeschi. Quello della resistenza come elemento culturale comune è una caratteristica fondamentale della cultura nazionale. Il sentimento costante di vivere in un clima di odio aveva radici storiche: l’antisemitismo nasce secoli prima del nazismo. Il contrasto di oggi con gli arabi vicini è una sua evoluzione.

Criticare la politica israeliana deve fare i conti con questo elemento: l’idea della sopravvivenza. Per molti israeliani criticare il sionismo è antisemitismo, proprio perché Israele nasce dall’antisemitismo. Dopo il crimine immane dell’Olocausto (infamità che gli europei delle nuove generazioni hanno già dimenticato) per gli israeliani l’indipendenza è l’unica soluzione possibile – anche a spese di altre popolazioni. Le responsabilità nazionali di Israele sono responsabilità politiche dell’Europa.

Per questo, si possono criticare le politiche del paese. Si può criticare la politica della destra, si può criticare la politica degli insediamenti, si possono criticare alcune misure di controllo. Gli israeliani sanno bene, però, che se dovesse capitare qualcosa al paese, gli europei non muoverebbero un dito. Sanno bene che se le forze militari di Hezbollah in Libano o di Hamas e dei Salafiti a Gaza aumentassero la capacità militare, l’Europa non farebbe nulla. Sanno bene che chi critica le operazioni militare israeliane, è assai meno disposto a prendere posizione contro gli attacchi di Hamas. Molti israeliani, semplicemente, non prendono neanche in considerazione le critiche europee, proprio perché gli europei sembrano aver dimenticato come e perché Israele è nato.

La domanda fondamentale, a questo punto, è se Israele è veramente una nazione, o è solo un esperimento. Non si potrà mai rispondere a questa domanda, proprio perché non esiste accordo su cosa sia una «nazione». C’è chi sostiene che sia una «comunità immaginata» (Benedict Anderson), in cui ci si aspetta che altri individui abbiano valori e usi comuni. C’è chi sostiene che sia una «forza reale» per cui si può fare anche la guerra e per cui si può anche morire (Ernest Gellner). Israele è entrambe le cose, in realtà, ed è nazione proprio per questo motivo.

Sopravvivrà quest’idea? L’identità del paese è distinta da quella religiosa: la religione è stata impiegata come elemento di distinzione, ma lo spirito è laico. Il Bar-Mitzvah può avere lo stesso valore del servizio militare di tre anni per gli uomini e due per le donne. L’identità è in evoluzione continua, soprattutto con l’ingresso di milioni di ebrei russi dopo la dissoluzione sovietica; e con l’inflazione di ultra-ortodossi a spese dello stato. Si parla di una “decadenza dello spirito nazionale”, anche perché – sostengono alcuni – da troppo tempo il paese non attraversa una crisi esistenziale vera, come quelle dei conflitti con i paesi arabi tra gli anni Sessanta e Settanta.

Israele sa che il rapporto con la Palestina è al centro di interessi geopolitici globali: la questione palestinese è impiegata dalle potenze regionali come arma di pressione nel gioco tra Stati Uniti, Russia e Cina. è sempre stato così: quando l’Unione Sovietica armava la Siria e l’Egitto, lo faceva perché attaccassero Israele, e il sevizio è stato reso un paio di volte. Con il raggiungimento della capacità nucleare israeliana (nel 1967, sei anni prima dello Yom Kippur), è cambiata anche la dimensione del conflitto. Prima c’erano scontri diretti e ad alta intensità; adesso c’è un logoramento politico, mediatico e – ogni tanto – militare, che si fatica a riconoscere come vero conflitto. Se per i critici d’Israele il paese opprime i Palestinesi, per molti israeliani invece il paese è assediato da un sistema internazionale con flussi ben oliati di finanziamenti e armi.

Se ne uscirà solo riconoscendo che, nel bene o nel male, Israele esiste. Ci vivono otto milioni di persone, di cui tre quarti sono ebrei, che si riconoscono come «israeliani» – ivi compresi i drusi, i quali prestano anche servizio militare. La soluzione di uno stato unico con i palestinesi è impossibile: si finirebbe in una situazione ben più difficile rispetto al Libano dei primi anni Ottanta, con tutti gli equilibri demografici saltati. Deportare sei milioni di persone per liberare il territorio ricorda troppo memorie che furono. Il conflitto tra Israele e paesi arabi non è una cartolina in bianco e nero, con buoni e cattivi, e la ricerca di “colpevoli” per fare il tifo non servirà a nessuno. Attaccare gli interessi dietro al conflitto è l’unico modo per tornare all’epoca di speranze di vent’anni fa.
 

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