Un’ammuina che fa male al Paese. Dal magnate Naguib Sawiris al magnate Li Ka Shing, da Orascom al gruppo H3G. Spifferi, smentite, depistaggi. Il tutto con un obiettivo ben preciso: mettere pressione sulla Cassa depositi e prestiti affinché acquisti la rete in rame, naturalmente al prezzo del venditore e ovviamente senza alcuna pretesa sulla governance. L’unico modo, pare, per alleggerire i 28 miliardi di debiti di Telecom Italia, società che sul mercato domestico perde il 4% l’anno e sta subendo un’erosione dei margini anche in Brasile e Argentina, fino a ieri salvagente del gruppo. Sfumata la candidatura alla poltrona oggi occupata da Flavio Zanonato allo Sviluppo Economico, la strategia del presidente Franco Bernabè – controllato a vista dai saggi del comitato che rappresenta i soci Telco (la holding che detiene il 22,45% della società) composto da Elio Catania (Intesa) Julio Linares (Telefonica), Gabriele Galateri (Generali) e Luigi Zingales (indipendente) – è temporeggiare. Almeno fino a settembre, quando si apre la prima finestra utile per il liberi tutti all’interno del patto di sindacato.
Nelle ultime riunioni del board si narra siano volati gli stracci, ma non potrebbe essere altrimenti: Bernabè è sempre più ingombrante, non gode più dell’appoggio di Generali, intenzionata a concentrarsi soltanto sul business assicurativo, né di Mediobanca, che non può permettersi di svalutare ancora. Al suo fianco sembra sia rimasta soltanto Intesa Sanpaolo. Gli spagnoli di Telefonica, primo azionista di Telco, si starebbero interrogando sull’appetibilità del gruppo, senza la rete a garanzia del debito. Per questo, con ogni probabilità il consiglio di amministrazione di domattina (che approverà i conti del primo trimestre 2013) dirà, da un lato, che necessita di ulteriori elementi sul dossier 3, e dall’altro darà mandato al top management di iniziare, stavolta per davvero, un percorso che coinvolga la Cassa depositi e prestiti. Il quale dovrà iniziare siglando subito un memorandum preventivo per mettere in chiaro le condizioni di governance. È infatti da due mesi, a quanto risulta a Linkiesta, che le diplomazie della Cdp e della compagnia telefonica non parlano concretamente del dossier. E dire che il cda ha affidato il mandato al management lo scorso dicembre.
«Siamo sempre interessati, ma il primo passo tocca a Telecom», ha detto ieri l’amministratore delegato della Cdp Giovanni Gorno Tempini, a margine della Relazione annuale Consob. L’orientamento dell’ente, che investe il risparmio postale degli italiani, è creare una newco non consolidata nel perimetro societario dell’ex monopolista, entrando nell’azionariato tramite il Fondo strategico italiano in sede di Ipo, per poi conferire in un secondo momento la rete di Metroweb, controllata da F2i e dallo stesso Fondo strategico italiano. Un percorso che garantirebbe la libertà di prestare servizi senza vincoli regolatori. Lo scoglio insormontabile è il prezzo: 7 miliardi al massimo per Cdp, 15 per Telecom. L’Asati, associazione dei piccoli azionisti Telecom, ha invece proposto la quotazione del 47% della divisione Open Access, con la Cdp al 25% e il 3% a un fondo sottoscritto dai dipendenti. Un’ipotesi che consentirebbe a Telecom di mantenere salda nelle sue mani la maggioranza della società. Fonti vicine a Mediobanca riferiscono invece di un tentativo di convincere la Cdp a entrare come azionista direttamente in Telco.
Per Bernabè, dopo sei anni al timone, è tempo di bilanci. Dal 3 dicembre 2007, quando è tornato in Telecom da amministratore delegato, il titolo ha lasciato sul terreno il 74%, France Telecom il 68%, Deutsche Telekom il 45%, Telefonica il 53% e Vodafone soltanto l’1,3 per cento. Tuttavia, la mancanza imputata al manager trentino da quanti sono interessati allo sviluppo industriale dell’infrastruttura a banda larga per veicolare servizi al cittadino non è il non essere riuscito a ridurre il macigno del debito per liberare risorse da destinare agli investimenti, e la progressiva scomparsa della cultura industriale rispetto a quella finanziaria. I vecchi del mestiere ricordano quando gli ingegneri della Stet, società di telecomunicazioni dell’Iri – fusa nel ’97 con Telecom – venivano invitati come consulenti a Londra per la realizzazione delle reti.
Ora è l’Italia che guarda alla soluzione britannica Openreach, definita a fine 2012 da Bernabè «degna di interesse» in un’intervista a Les Echos. Nel 2006, quando la rete è stata scorporata, British Telecom aveva un fatturato di 19,5 miliardi di sterline (circa 23 miliardi di euro), utili per 2,5 miliardi (3 miliardi di euro) e un debito di 7,5 miliardi di sterline (9 miliardi di euro). A settembre 2012 BT presentava ricavi per 15,4 miliardi di euro (-6%), 2,4 miliardi di utile (+4%) e 9,6 miliardi di debiti (+5%). Openreach ha invece prodotti ricavi per 1,5 miliardi con margini per 684 milioni e una generazione di cassa in crescita del 20% sui nove mesi 2011, a 431 milioni di euro. Soprattutto, lo scorso dicembre ha ridotto le tariffe all’ingrosso per il servizio di connessione in fibra fino all’edificio (Fttp, diverso dal servizio fino alla centralina, detto Fttc, Fiber to the cabinet, ndr), da 60 a 38 sterline al mese.
In Italia, invece, il prezzo all’ingrosso lo fa Telecom, mentre il divario digitale con il resto d’Europa si allarga nella misura in cui il vectoring (Vdsl2), cioè la tecnologia scelta dalla compagnia per aumentare la velocità di trasmissione dei dati sulla rete in rame a 100 mega, è per natura escludente: non è possibile collocare due Dslam (apparecchi di modulazione delle connessioni a banda larga, ndr) all’interno di un unico armadietto telefonico, perché i loro segnali si disturbano. Non solo: per non lasciare l’ultimo miglio (dall’armadietto alla casa) agli Olo, la rete in fibra ottica, con l’eccezione di Milano, rimane un sogno in gran parte d’Italia. Con buona pace del principio comunitario dell’equivalence of imput, cioè la parità di accesso all’interno dell’infrastruttura di rete. Risultato? Come emerge da un’indagine dell’Ofcom, se è vero che il costo di internet a banda larga in Italia è inferiore agli altri Paesi – ad esempio è sceso in un anno da 46 a 30 sterline per una giovane coppia dai consumi elevati, rispetto alle 31 della Francia, ai 48 della Spagna e ai 64 degli Usa – è altrettanto vero che la velocità media, pari a 4-6 megabit al secondo, è inferiore rispetto al resto d’Europa. Solo il 26% delle aziende naviga a 10 mega, ha calcolato l’Istat a fine dicembre. E si continua a parlare di produttività.
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