Come faceva notare l’economista Alberto Alesina sul Corriere della Sera qualche giorno fa, l’idea della staffetta tra giovani disoccupati e lavoratori anziani, per iniziare a combattere il drammatico problema della disoccupazione giovanile, è spiazzante e curiosa al tempo stesso.
Spiazzante perché «un anno e mezzo fa il ministro del Lavoro Fornero diceva agli italiani che avrebbero dovuto lavorare più a lungo, fino ai 67 anni. Curiosa perché, a prescindere dalla domanda (nient’affatto secondaria) se vi siano i fondi necessari a finanziare questa staffetta, l’idea di un «posto per due» non risolve certo il problema vero: la mancanza di posti di lavoro perché l’economia italiana è in continua contrazione. Ed è solo un’economia in espansione che crea anche posti di lavoro. La soluzione della staffetta, fa giusto stare, i pochi che condivideranno il posto di lavoro, la scrivania, più stretti, e nulla più.
Ora, vista la quotidiana campagna mediatica contro la l’arcignia Germania, partire proprio da un fatto tedesco per corroborare la tesi di Alesina, non risulterà particolarmente piacevole, ma tant’è. Innanzitutto va ricordato che solo dieci, quindici anni fa, la Germania era il grande malato d’Europa (d’altro canto, con l’unificazione del 1990, il benestante ovest si era accollato 16 milioni di connazionali dell’est e un’economia pianificata che disponeva quasi esclusivamente di fabbriche obsolete). Per anni il tasso di disoccupazione non aveva fatto che crescere, superando durante i due governi rosso-verdi di Gerhard Schröder i 5 milioni di senza lavoro.
Tra i disoccupati si contavano poi a ovest il 10 per cento dei giovani, a est il 16 per cento. Inizialmente anche molte aziende tedesche avevano pensato di risolvere il problema mandando a casa prima i «vecchi». In parallelo erano però partite anche iniziative di governo. Tra queste, il programma «Jump» (Junge mit einer Perspektive – giovani con una prospettiva) corsi di formazione preventiva all’inserimento come apprendista, che in certi casi erano simili a sessioni di autostima, perché i giovani, soprattutto quelli provenienti da situazioni particolarmente disagiate, con giusto la licenza media e al massimo apprendistati interrotti, riacquistassero fiducia in loro. Iniziato nel 1999 con l’obiettivo di inserire velocemente gli under 25 anni nel mercato di lavoro, era costato nei soli primi tre anni 3 miliardi di euro, senza produrre, sul momento, un’inversione di rotta, anzi: il numero dei ragazzi a spasso sarebbe passato dai 500 mila agli oltre 600 mila nel 2005.
Ovvio, nulla paragonato alle cifre con le quali si devono confrontare l’Italia e gli altri paesi dell’Europa mediterranea. Accanto al programma Jump, nel 2004, in cambio di sgravi fiscali, le imprese avevano sottoscritto con il governo il cosiddetto «Ausbildungspakt», accordo con il quale si impegnavano a mettere a disposizione annualmente 30 mila posti di apprendistato e 25 mila di praticantato. Inizio 2005 era poi entrata in vigore anche la riforma dello stato sociale, che fondeva assegno di sussistenza e assegno di disoccupazione. Ognuno di questi provvedimenti aveva attirato su di sé anche dure critiche. La riforma dello stato sociale era di fatto costato il posto a Schröder. L’Ausbildungspakt era stato avversato soprattutto dalla confederazione nazionale dei sindacati tedeschi, il DGB, perché avrebbe indotto le imprese a «sfruttare» i giovani, per poi, terminato il periodo di apprendistato, sbarazzarsene. Un’accusa rivelatasi in parte anche corretta. Nei fatti però, la riorganizzazione delle imprese, gli incentivi all’assunzione di giovani da formare (il sistema duale dell’apprendistato da svolgere per metà sui banchi di scuola e per metà sul lavoro), le riforme della stato sociale, a un certo punto erano riuscite a far ripartire l’economia tedesca. E oggi le imprese tedesche si trovano nell’invidiabile posizione di aver disperatamente bisogno di manodopera.
Ma non di manodopera qualsiasi, di manodopera qualificata. Per questo dal 2008 in poi, sempre più imprese tedesche, quelle che fino a poco tempo prima avevano mandato a casa i vecchi per far spazio ai giovani, ora richiamano i loro ex lavoratori specializzati. Il tabloid Bild titolava questa settimana: «Quasi nessuna impresa riesce più ad andare avanti senza l’esperienza dei dipendenti qualificati di un tempo». E poi elencava: il Gruppo Otto, oggi uno dei big nell’e-commerce, ha addirittura aperto una consociata per poter richiamare sistematicamente gli ex dipendenti. Questi pensionati vengono ingaggiati ognuno per massimo 50 giorni all’anno. Il gruppo Bosch ha un elenco di 1500 ex dipendenti altamente qualificati, che all’occorrenza richiama per brevi periodi di consulenza. Anche Volkswagen, Airbus, Fraport (l’aeroporto di Francoforte) Bmw e altri colossi dell’industria tedesca si avvalgono sempre più dei pensionati di casa. Perché, diversamente da altri consulenti, il rapporto con loro è ovviamente più facile, conoscendo loro il lavoro.
Ora, tornando all’idea di «un posto per due». L’Istat ha da poco comunicato che l’Italia detiene un altro triste primato: e cioè quello di avere il più alto numero di giovani tra i 15 e i 29 anni che né studiano, né lavorano. In tutto sono 2,5 milioni. E per studio, spiegava Luigi Paganetto, presidente della Fondazione economica di Tor Vergata, in una trasmissione radiofonica, non si intende necessariamente quello universitario, ma anche l’apprendistato. Perché la competitività sarà in futuro sempre più determinata dalla qualificazione.
L’Italia avrebbe dunque, e avrà disperatamente bisogno, quando l’economia finalmente ripartirà, anche di «semplice» ma «qualificatissima» manodopera. Per recuperare i passati quattro anni di recessione, ma anche i dieci precedenti al 2008, quando la produttività italiana cresceva a un tasso inferiore a quello della media europea. E se fino ad allora le imprese, per sopravvivere, avranno vieppiù incentivato l’uscita dei lavoratori oggi tra i 55 e i 65 anni, saranno pericolosamente a corto di lavoratori qualificati, stando ai numeri dell’Istat.