Obama, il lato oscuro: incidenti o inizio del declino?

Il fisco sul Tea party, i giornalisti dell’AP spiati, l’attacco all’ambasciata di Benghazi

SAN FRANCISCO – Per il presidente Barack Obama è stata una settimana d’inferno. Peggio non poteva andare. Ogni giorno saltava fuori un nuovo scandalo, e lui cercava velocemente di riparare le crepe, per evitare che diventassero voragini.

Questa settimana è emerso che l’Internal Revenue Service (IRS), l’Agenzia americana delle entrate, aveva nel mirino organizzazioni legate agli ultraconservatori del Tea Party senza un motivo legittimo per farlo. E qualcuno nell’amministrazione Obama sapeva dell’operazione. Secondo i repubblicani queste indagini mirate costituiscono gravissime violazioni dei diritti civili e sono state volute da Obama per indebolire l’apparato elettorale dei conservatori.

Sempre questa settimana è pure tornato in primo piano il dossier degli attacchi terroristici all’ambasciata americana di Bengasi in cui persero la vita l’ambasciatore J. Christopher Stevens e altri tre americani. Su questo versante l’amministrazione viene in sostanza accusata di aver manipolato informazioni in suo possesso per non mettere a rischio la rielezione di Obama lo scorso novembre.

Ancora questa settimana è affiorata la notizia che il dipartimento di Giustizia ha controllato i tabulati telefonici di giornalisti dell’agenzia di stampa americana Associated Press nell’ambito di una investigazione che voleva capire chi fossero le persone dell’amministrazione che lasciavano trapelare alla stampa informazioni riservate su questioni di sicurezza nazionale.

Sullo sfondo di questi scandali c’e’ per Obama la carenza di risultati nei primi mesi del secondo mandato. La battaglia principale ingaggiata dal presidente – l’impegno per misure più stringenti sul possesso di armi – si è risolta in un nulla di fatto. E pure la delicata riforma dell’immigrazione, che sulla carta dovrebbe costituire il piatto forte del programma di Obama, diviene ora più incerta.

Insomma, anche Obama non sembra essere immune da quella che gli storici chiamano informalmente “la maledizione del secondo mandato”, quegli scandali che spesso hanno accompagnato l’operato dei presidenti americani rieletti, e che non hanno consentito loro, per diverse ragioni, di completare il programma di governo.

Ma andiamo per ordine. La prima controversia è legata alla notizia che l’agenzia delle entrate americane, a partire dal 2010 tartassava organizzazioni vicine ai Tea Party che avevano fatto domanda per un trattamento esentasse. Obama, mercoledì scorso, ha chiesto le dimissioni del responsabile, Steven Miller, definendo la sua condotta “impossibile da scusare”. Miller si è dimesso, ma non ha ancora spiegato perché la sua agenzia avesse preso di mira le organizzazioni conservatrici. Obama ha dichiarato di aver appreso la notizia per la prima volta dalla stampa, però non ha escluso che qualcuno della sua amministrazione fosse a conoscenza di questo speciale trattamento. Cosa che poi è stata ammessa venerdì da un ispettore del Tesoro: già dal giugno del 2012 alcuni alti funzionari del Tesoro erano al corrente delle indagini mirate. Se si scoprisse che qualcuno dell’amministrazione dirigeva queste operazioni, per Obama si potrebbero aprire scenari poco piacevoli. Anche su questo fronte i repubblicani gongolano, valutando come sfruttare al meglio questa storia per minare la popolarità di Obama e rilanciarsi in vista delle prossime elezioni.

La seconda controversia, di natura completamente diversa, si riferisce al dossier Bengasi. La versione dei fatti degli attacchi di Bengasi dell’11 settembre scorso è apparsa fin dall’inizio poco trasparente. Il 16 settembre 2012, Susan Rice, ambasciatrice americana alle Nazioni Unite, disse che l’attacco al consolato Usa era scaturito da una manifestazione di protesta spontanea in risposta a un video anti-Islam comparso su YouTube. Solo giorni dopo era stato comunicato dall’amministrazione che a portare l’attacco era stato un gruppo di miliziani organizzati, e si era trattato di atto terroristico premeditato, in una ricorrenza, l’11 settembre, in cui le ambasciate statunitensi in tutto il mondo dovrebbero osservare un livello di sicurezza ancor più alto del solito. Il 15 novembre scorso, l’ormai ex generale David Petraeus, travolto da una storia di corna, dichiarò al Congresso che la Cia sapeva fin dall’inizio che gli attacchi di Bengasi erano di natura terroristica.

Più recentemente alcune e-mail relative al caso sono arrivate alla stampa americana, avvalorando in qualche misura la tesi che l’amministrazione Obama non parlando subito di attacchi terroristici, avesse cercato di confondere le acque per non subire un contraccolpo elettorale. Per fugare voci simili, questa settimana, Obama, ha deciso di rendere pubblica tutta la corrispondenza elettronica relativa al dossier Bengasi affinché la stampa possa ricostruire il contesto generale della situazione e riconoscere che definire gli attacchi spontanei e non frutto di gruppi terroristici organizzati fu un errore di valutazione dell’intelligence e non un tentativo dell’amministrazione di coprire la verità per fini elettorali, come sostiene a gran voce il partito repubblicano.

La terza tegola per l’amministrazione, quella dei telefoni dei cronisti dell’ Associated Press messi sotto controllo per capire chi avesse spifferato alla stampa informazioni su una operazione contro al-Qaeda in Yemen è un’altra botta per Obama, in un Paese, gli Stati Uniti, in cui la libertà di stampa è ritenuta un fatto acquisito.

Di fronte a tutte queste grane (fisco, Bengasi e Associated Press) Obama ha cercato di limitare i danni, prendendo le questioni di petto: ha pubblicato tutte le e-mail del dossier Bengasi per tentare di mettere a tacere le speculazioni; ha fatto dimettere il capo dell’agenzia delle entrate promettendo che situazioni simili non si ripeteranno grazie a norme disciplinari più severe; ha proposto una nuova legge che tuteli la libertà dei giornalisti e delle loro fonti.

La Casa Bianca vuole dimostrare che Obama ha la situazione in pugno e non è in balia degli eventi. Ma vale la pena chiedersi se queste siano le avvisaglie della classica “maledizione del secondo mandato”, che ha colpito, tra gli altri, Richard Nixon e Bill Clinton.

Uno degli storici più autorevoli della vita e delle opere dei presidenti americani, Robert Dalleck, ritiene che quello andato in scena questa settimana sia un copione già visto. Secondo il professor Dalleck ogni amministrazione o presidente ha i suoi punti deboli, e se durante il primo mandato opposizione e stampa non riescono esattamente a metterli a fuoco, nel secondo i nodi vengono spesso al pettine. «Il mestiere di presidente degli Stati Uniti, specie se si resta in sella per otto anni, è spietato», sostiene il professore. «Thomas Jefferson diceva che la presidenza non è altro che una ‘splendida miseria’». 

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