NEW YORK – La gestione degli scandali politici è una scienza che gli americani hanno codificato una vita fa. Judy Smith, consigliere di Bush senior, l’ha affinata a tal punto che i produttori della Abc si sono ispirati alla sua agenzia quando hanno creato la serie Scandal.
Olivia Pope, la protagonista che protegge l’immagine dei potenti di Washington, non è che un riadattamento di Smith per il piccolo schermo. Con una congrua parcella la Smith & Company rimette in pista anche i morti, politicamente parlando. Chris Lehane e Mark Fabiani hanno traghettato Bill Clinton fuori dallo scandalo Whitewater, dall’affare Lewinsky e hanno schermato l’immagine del presidente durante l’impeachment. Lo scorso anno i due consiglieri hanno scritto “Master of Disaster”, decalogo per il contenimento dei danni per qualunque scandalo, dal presidente corrotto all’impiegato che disgraziatamente clicca “rispondi a tutti” proprio nel messaggio in cui insulta mezzo ufficio.
Ammettere l’errore, difendersi con forza, non traccheggiare, ristabilire la fiducia negli interlocutori, anche se per farlo bisogna concedere qualcosa agli avversari: con una strategia collaudata si resuscitano i presidenti fedifraghi, i generali marpioni, si riabilitano i governatori che s’avventurano nelle case di tolleranza, i deputati che inviano foto delle proprie vergogne via Twitter, si rimettono in sella governatori che dicono alla moglie “vado a fare una scalata sugli Appalachi” e finiscono chissà come su una spiaggia sudamericana abbracciati a bellezze locali.
Questa particolare branca lavora sulla terapia, si concentra sui postumi, mette dei paletti quando ormai il danno è fatto. Ma nel tempo dell’onnipotenza del dato e dell’invasione dell’algoritmo gli ingegneri dello scandalo politico hanno studiato un modello per spiegarne la natura. Perché certe magagne trascinano nel fango i loro responsabili, mentre altre di analoga gravità svaporano nel giro di qualche settimana? Com’è che alcuni attecchiscono e altri si dileguano?
Con le accuse di avere nascosto la verità sull’attentato al consolato americano di Bengasi, le inchieste mirate dell’agenzia delle entrate (Irs) sulle associazioni conservatrici (il direttore e un alto funzionario si sono dimessi), il dipartimento di giustizia che teneva d’occhio i telefoni dell’Associated Press per scoprire chi nell’amministrazione ha la lingua troppo lunga, nell’ultima settimana Barack Obama si dev’essere fatto spesso queste domande.
La risposta l’ha data Brendan Nyhan, professore di scienze politiche al Dartmouth College, e suona più o meno così: scandali uguali producono risultati diversi. L’errore che si commette di solito, spiega Nyhan nel paper intitolato “Scandal Potential”, è quello di limitarsi a considerare esclusivamente la natura dell’evento, mentre ci sono decine di circostanze, rumori di fondo, coincidenze, pregiudizi, distorsioni di prospettiva che influenzano l’esito delle vicende. Lo scandalo è una reazione chimica fra decine di componenti, non una sostanza pura. Come un chimico della politica Nyhan si è quindi messo a fare gli esperimenti in laboratorio, ha associato le sostanze e scrutato le reazioni, ha immesso i dati storici ponderandoli con solidi modelli statistici e ne ha ricavato alcune leggi.
Prima legge: lo scandalo esplode quando il partito all’opposizione è particolarmente allergico al presidente in carica (al momento la popolarità di Obama fra i conservatori oscilla fra il 10 e il 18 per cento, piuttosto bassa). Seconda legge: lo scandalo rimane sottopelle quando l’attenzione dei media è rivolta su altro e il pubblico è saturo di news. Terza legge: il secondo mandato è il luogo naturale in cui crescono gli scandali. Secondo gli standard di Nyhan – corroborati da vettori e sinusoidi, roba che merita di essere studiata integralmente – Obama è praticamente spacciato. Dalla sua ha soltanto una chiara, seppur declinante, simpatia diffusa da parte dei media, ma per il resto i fatti contestati sono oggettivamente seri e le circostanze svantaggiose per lui.
Finirà dunque con un impeachment? Con i forconi e le torce sotto la Casa Bianca? Improbabile. E paradossalmente è lo stesso paper che condanna il presidente a dargli una speranza. Nyhan sostiene, in buona sostanza, che il problema di uno scandalo politico non è la gravità intrinseca del fatto, ma l’interazione con l’ambiente circostante. Insomma: non sono le email di Bengasi, è Fox News. Non è la Irs che agisce su mandato politico, è il clima avvelenato. Non è il dipartimento i Giustizia che viola la libertà di stampa (primo emendamento alla Costituzione), è la sicurezza nazionale. E così via.
Diversi commentatori vicini a Obama, ad esempio Ezra Klein del Washington Post, hanno ripreso lo studio dello scienziato politico e hanno così ottenuto l’effetto di relativizzare la gravità dei fatti contestati a Obama appoggiandosi su un testo prodotto in una delle università più prestigiose d’America. Lo studio è piaciuto particolarmente a quei democratici che usano sostenere opinioni motivate ideologicamente con la freddezza inoppugnabile dei numeri, delle statistiche. L’opinione è di per sé debole, l’algoritmo è forte, anche se il secondo viene spesso impiegato come ancella della prima.
Se l’evoluzione di uno scandalo è soltanto un fatto di variabili significa che il presidente può permettersi scivoloni clamorosi e lo stesso recuperare grazie alla simultanea presenza di certe condizioni; certo, le condizioni bisogna crearle, coltivarle con cura, ma dal dipartimento della scienza degli scandali assicurano che tutto è possibile, non c’è fatto troppo grave per non essere neutralizzato a dovere. È questa logica che salverà Obama dalla bufera. Se Nixon avesse capito che lo scandalo è relativo, ora ci sarebbe una sua statua di marmo bianco in una piazza della capitale.