La presentazione del rapporto Nimby – giunto all’ottava edizione e per la prima volta realizzato in collaborazione tra Aris e Anci – costituisce un’occasione preziosa per ripensare e costruire le strategie indispensabili per rimuovere gli ostacoli che hanno prodotto il ritardo infrastrutturale a cui oggi assistiamo.
Sono molteplici le ragioni che hanno prodotto il nostro sempre più conclamato ritardo infrastrutturale e non certo solo riconducibili a elementi di natura economica-finanziaria. Infatti senza dubbio nell’ultimo ventennio si è assistito a una contrazione della spesa pubblica per investimenti infrastrutturali (dovuta al rispetto degli impegni comunitari e ai “decreti anticrisi”) ma anche alla difficoltà di programmare la spesa.
Si registra una difficoltà di attuazione delle opere programmate sia sotto il profilo delle risorse impegnate che della concreta realizzazione degli interventi e ciò appunto per carenza di una “visione strategica” intesa come incapacità di definire il modello di sviluppo al cui servizio le infrastrutture strategiche dovrebbero essere destinate.
Tale incapacità è testimoniata ad esempio dal fatto che a fronte di una evidente carenza di risorse finanziarie (150 miliardi contro i 367 necessari alle 390 infrastrutture “strategiche”) nell’allegato infrastrutture al documento di finanza pubblica (Def) non si registra alcuna indicazione circa le priorità su cui concentrare gli investimenti.
L’apparente incapacità del nostro Paese di pianificare e realizzare, in modo lineare e condiviso, grandi infrastrutture per la sua modernizzazione, non è certo ascrivibile a una pregiudiziale avversità dei cittadini. Piuttosto ha a che fare con un serio problema di governance dei processi decisionali che ha finito paradossalmente con l’alimentare il pregiudizio da parte di settori importanti dell’opinione pubblica.
È infatti evidente che opere programmate senza un adeguato livello di condivisione sul territorio, la cui utilità non è quindi percepita come tale dai cittadini e dalle loro istituzioni di riferimento, si prestano troppo facilmente a diventare elementi di conflitto come già nel recente passato è accaduto in val di Susa.
Inutile sottolineare poi come la conflittualità intorno ai grandi progetti infrastrutturali abbia spesso come esito quello di farli decollare in ritardo, quando dunque essi hanno ampiamente esaurito la loro spinta innovativa.
L’esplosione dell’effetto Nimby, con oltre trecento casi censiti nel 2012 a fronte di 190 casi della prima edizione e 283 della quinta, si traducono nel fatto che le lungaggini connesse alla necessità di far forzosamente “digerire” tali opere alle comunità locali, finiscono quindi per allungarne così tanto i tempi di realizzazione da rischiare di vanificarne l’utilità o, comunque, dal limitarne enormemente il ciclo di vita rispetto alle esigenze da cui ne era scaturita la necessità.
Diventa quindi indispensabile e non più procrastinabile affrontare il tema di quali meccanismi costruire per un efficace coordinamento tra i vari livelli istituzionali. È infatti necessario ricomporre i centri di potere decisionale attraverso una leale e fattiva collaborazione tra i vari soggetti istituzionali.
Si prende spesso a modello il meccanismo francese del “débat public” ma quello italiano non è uno Stato che soffoca il dibattito. Anzi. Se proprio si vuole fare autocritica, va piuttosto sottolineato che in Italia si parla per venti, trenta, quarant’anni della realizzazione di una infrastruttura. Ma non c’è mai nessuno che fischia la fine del tempo per la discussione, con l’evidente risultato che tutto può essere sempre, sistematicamente, ridiscusso.
L’Italia, quindi, anche nel settore infrastrutturale è un Paese caratterizzato da un drammatico deficit democratico, per il quale tutti parlano e nessuno decide. La sfida che abbiamo di fronte consiste dunque nella definizione di come intendiamo ristrutturare le modalità di collaborazione e confronto in modo che si possano contemperare esigenze dei vari centri di interesse coinvolti e obiettivo decisionale finale: localizzare e realizzare le opere pubbliche.
Dobbiamo però essere consapevoli che tali problemi non si superano con la semplice revisione di meccanismi procedurali. Occorre un reale coinvolgimento delle comunità locali e in questo senso l’esempio del “débat public” può essere un punto di riferimento utile.
D’altra parte non si può prescindere dalla restituzione alle comunità locali e alle loro istituzioni dei margini di autonomia e autodeterminazione che, è inutile negarlo, negli ultimi anni, complici la crisi economico finanziaria e l’approssimazione con cui si sta riprogettando l’assetto istituzionale federalista del Paese, si sono inaccettabilmente e rovinosamente compressi.
Emblematica, in proposito, è l’ottusa testardaggine con la quale si mantiene il patto di stabilità interno e con esso la decisione di bloccare gli 11 miliardi di residui passivi presso i comuni che toglie loro, nei fatti, qualsiasi margine di discrezionalità nella allocazione di risorse per investimenti sul proprio territorio.
È dunque dal sistema delle autonomie locali che può ripartire una spinta condivisa verso lo sviluppo e il progresso. Come? Con tutti i suoi limiti, il “Piano Città” varato dal ministro Passera – di recente realizzazione – ha sposato questa logica rappresentando un felice elemento di discontinuità e di passo verso la giusta direzione e la costituzione del Cipu – Comitato Interministeriale per le Politiche Urbane – sembra promettere di voler proseguire su questa strada. Purtroppo, però, troppo facilmente si è ceduto alle resistenze inerziali che hanno impedito a un metodo giusto di dispiegare al meglio le sue potenzialità.
Non si è aggiunto un euro ai 318 milioni stanziati da Mit (224) e Coesione territoriale (100 per le Zone Franche Urbane) nonostante una montagna di risorse – oltre 2 miliardi di euro soprattutto di fondi strutturali –rimangano dormienti e a sempre più alto rischio di disimpegno presso le Regioni dell’Area Convergenza.
Ritornando al significato del cosiddetto “effetto Nimby”, ovvero l’atteggiamento che si riscontra nelle proteste contro opere di interesse pubblico come ad esempio grandi vie di comunicazione, termovalorizzatori, discariche, centrali energetiche, cave e altro ancora, non ci si può tuttavia non interrogare su un fenomeno che presenta anche, indipendentemente dalle caratteristiche peculiari dei singoli casi, una sempre crescente dose di ideologia.
Esiste nel nostro Paese, non da oggi, un rigurgito che uno storico di valore come Piero Melograni avrebbe definito senza mezzi termini “antimoderno” e che si manifesta, appunto, attraverso la radicale opposizione a ogni tentativo di progresso, a ogni innovazione.
Assistiamo così nel nostro Paese a guerre di religione contro i termovalorizzatori che sono adottati in ogni Stato che intenda definirsi civile, oppure a fenomeni di guerriglia quando a dover essere costruita è una nuova via di comunicazione.
Indipendentemente dalle convinzioni di ciascuno, quindi, occorre che anche gli organi di informazione, le istituzioni e in fondo l’opinione pubblica, distinguano quelle che sono proteste nel merito, argomentate e fondate, da pregiudizi di natura ideologica che si traducono in movimenti del “No” che giorno dopo giorno rischiano di fermare definitivamente l’Italia e di farlo, per giunta, in modo violento. Detto in altri termini, dopo i fatti della notte scorsa relativi alla Tav, cosa ancora deve accadere per definire non soltanto violente, ma anche eversive, certe iniziative?
* presidente commissione Infrastrutture e lavori pubblici Anci