Da Intervista con la storia, 1974
Roma, marzo 1974
Lui parlava con la sua voce lenta, educata, da confessore che ti impartisce la penitenza di cinque Pater, cinque Salve Regina, dieci Requiem Aeternam, e io avvertivo un disagio cui non riuscivo a dar nome. Poi, d’un tratto, compresi che non era disagio. Era paura. Quest’uomo mi faceva paura. Ma perché? Mi aveva ricevuto con gentilezza squisita: cordiale. Mi aveva fatto ridere a gola spiegata: arguto, e il suo aspetto non era certo minaccioso. Quelle spalle strette quanto le spalle di un bimbo, e curve. Quella mancanza quasi commovente di collo. Quel volto liscio su cui non riesci a immaginare la barba. Quelle mani delicate, dalle dita lunghe e bianche come candele. Quell’atteggiamento di perpetua difesa. Se ne stava tutto inghiottito in se stesso, con la testa affogata dentro la camicia, e sembrava un malatino che si protegge da uno scroscio di pioggia rannicchiandosi sotto l’ombrello, o una tartaruga che si affaccia timidamente dal guscio. A chi fa paura un malatino, a chi fa paura una tartaruga? A chi fanno male? Solo più tardi, molto tardi, realizzai che la paura mi veniva proprio da queste cose: dalla forza che si nascondeva dietro queste cose. Il vero potere non ha bisogno di tracotanza, barba lunga, vocione che abbaia. Il vero potere ti strozza con nastri di seta, garbo, intelligenza.
L’intelligenza, perbacco se ne aveva. Al punto di potersi permettere il lusso di non esibirla. A ogni domanda sgusciava via come un pesce, si arrotolava in mille giravolte, spirali, quindi tornava per offrirti un discorso modesto e pieno di concretezza. Il suo humour era sottile, perfido come bucature di spillo. Lì per lì non le sentivi le bucature ma dopo zampillavano sangue e ti facevano male. Lo fissai con rabbia. Sedeva a una scrivania sepolta sotto i fogli e dietro, sulla parete di velluto nocciola, teneva una Madonna con Bambin Gesù. La destra della Madonna scendeva verso il suo capo a benedirlo. No, nessuno lo avrebbe mai distrutto. Sarebbe stato sempre lui a distruggere gli altri. Con la calma, col tempo, con la sicurezza delle sue convinzioni. O dei suoi dogmi? Crede al paradiso e all’inferno. All’alba va a messa e la serve meglio di un chierichetto. Frequenta i papi con la disinvoltura di un segretario di Stato e guai, scommetto, a svegliare la sua ira silenziosa. Quando lo provocai con una domanda maleducata, il suo corpo non si mosse e il suo volto rimase di marmo. Però i suoi occhi s’accesero in un lampo di ghiaccio che ancora oggi mi intirizzisce. Dice che a scuola aveva dieci in condotta. Ma sotto il banco, scommetto tirava pedate che lasciavano lividi blu.
Ci sarebbe da comporre un saggio su Giulio Andreotti. Un saggio affascinante e inquietante perché tutto ciò che egli è va ben oltre il caso di un individuo. Rappresenta un’Italia. L’Italia cattolica, democristiana, conservatrice, contro cui tiri pugni che feriscono le tue nocche e basta. L’Italia di Roma col suo Vaticano, il suo scetticismo, la sua saggezza, la sua capacità di sopravvivere, sempre, di cavarsela, sempre, sia che vengano i barbari sia che vengano i marziani: tanto li porti tutti in San Pietro, a pregare. Alla politica non giunse di proposito: ignorava d’averne il talento. Al potere non giunse attraverso la lotta e il rischio: non aveva combattuto i fascisti. All’una e all’altro approdò per destino, vi rimase per volontà. La straordinaria invidiabile volontà che hanno gli sgobboni capaci di svegliarsi col buio: per lavorare. Ci comanda da circa trent’anni, cioè da quando ne aveva venticinque. Continuerà a comandarci in un modo o nell’altro, fino al giorno in cui gli impartiranno l’estrema unzione. Intimo di De Gasperi, membro della Consulta, deputato alla Costituente, alla Camera senza interruzioni, sei volte sottosegretario alla presidenza, segretario del Consiglio dei ministri, capogruppo parlamentare, ministro degli Interni, del Tesoro, due volte ministro delle Finanze e dell’Industria, sette volte alla Difesa, tre volte capo del governo. Lo sanno anche i bambini insieme alle storie che costruiscono il suo personaggio e che gli procurano tonnellate di voti: dai ricchi, dai poveri, dai giovani, dai vecchi, dai colti, dagli analfabeti. Ama il gioco del calcio, adora le corse dei cavalli, gli piace Rischiatutto, colleziona campanelli, ignora i vizi, è marito devoto e felice di una professoressa di lettere che gli ha dato quattro figli belli, buoni, studiosi. Ha un debole per l’America, per le corse dei cavalli, per le bionde esangui e brillanti come la buonanima di Carole Lombard. Quest’ultime platonicamente, s’intende. Possiede grandi qualità di scrittore e, giustamente, i suoi libri non passano mai inosservati. Peccato che scriva solo di cose da cui si leva un profumo d’incenso.
Ecco l’intervista. Avvenne nel suo ufficio del centro studi, si svolse in tre fasi, durò cinque ore. E per cinque ore, io che fumo disperatamente, accesi un’unica sigaretta. Da ultimo. Non osai farlo prima. Non sopporta il fumo. Nessun genere di fumo, figuriamoci poi il fumo del fuoco che brucia il vecchio per costruire il nuovo. Lo combatte con una candela, il fumo e il nuovo, neanche fosse Satana.
ORIANA FALLACI. Lei è il primo democristiano che affronto, onorevole, e sono un po’ preoccupata perché… Ecco, mettiamola così, perché non vi ho mai capito, voi democristiani. Siete un mondo così nebuloso per me, così gelatinoso. Un mondo che non riesco ad afferrare.
GIULIO ANDREOTTI. Lei mi ricorda un discorso di Giannini alla Camera quando disse: «Io mi rendo conto che rappresentate una forza politica ma, se dovessi dire d’aver capito la DC, mentirei». Poi raccontò la storia della badessa che aveva due cardellini, e sperava di metterli insieme per fargli far coppia, ma i due cardellini non facevan mai coppia, e la povera badessa non riusciva a capire se ciò avvenisse perché i due cardellini erano dello stesso sesso. Peggio, non riusciva a capire a quale sesso appartenessero i due cardellini, se erano dello stesso sesso. E un giorno esclamò esasperata: «Alla faccia del somaro! Con lui si vede subito se è maschio o femmina!». Raccontò proprio questa storia, Giannini, e conteneva una buona dose di verità. Perché vede, all’inizio era abbastanza chiaro cosa significasse essere democristiani: una linea di sociologia cristiana su una indiscutibile piattaforma democratica. Insomma, la linea di don Sturzo. Ma oggi non si può dire che le posizioni della DC siano altrettanto chiare e, forse perché i problemi si aggrovigliano e cambiano, forse perché un partito non può viver di rendita… Che c’è? Desidera qualcosa?
No, no. È che sono abituata a fumare ma so che lei non sopporta chi ha questo vizio e…
Una volta un papa ciociaro, Leone XIII, offrì a un cardinale del tabacco da annusare. E il cardinale disse: «Grazie, non ho questo vizio». E il papa rispose: «Se fosse un vizio, lei lo avrebbe».
E chi sarebbe il cardinale? Io o lei?
Dobbiamo rielaborare un programma della DC, dicevo. Magari partendo dalla piattaforma iniziale e cioè dalla relazione Gonella del 1946 che fu per noi una specie di Magna Charta. Dobbiamo vedere quel che è stato fatto o non fatto, esaminare i problemi sopravvenuti, e poi, sulla nuova piattaforma, costruire una linea politica con un orientamento preciso. Altrimenti si finisce per lasciare l’iniziativa agli altri e subire i gol di contropiede. Un po’ il problema dei socialisti italiani: la mancanza di chiarezza rappresenta un motivo di grossa crisi anche per loro. Come loro, bisogna far marcia indietro sulle correnti, il frazionismo, gli agglomerati di carattere personale…
Senta, Andreotti: nell’attesa di scoprire il sesso degli angeli, anzi dei cardellini, anzi dei democristiani, io vorrei dipingere il suo personaggio. Così, a ruota libera. Per esempio, e a parte il fatto che lei sia un gran bacchettone, mi piacerebbe sapere…
Bacchettone? Io, quella del bacchettone, ecco: è vero che, quando posso, vado alla messa. È vero che, quando posso, mangio di magro il venerdì. Ma che c’entra? Ho sempre fatto a quel modo, sono nato in una famiglia che faceva a quel modo. Non ho mai avuto ripensamenti, d’accordo. Non ho mai avuto voglia di comportarmi diversamente. Però non capisco. Se un arabo non beve alcoolici e non mangia carne di maiale, tutti dicono: che bravo musulmano! Se un cattolico vive come me, tutti dicono: che bacchettone! Non religioso. Bacchettone.
E va bene: religioso. A parte il fatto che lei sia tanto religioso, mi piacerebbe sapere perché divenne democristiano.
Per via di De Gasperi, direi. Non ero ancora democristiano quando conobbi De Gasperi nella biblioteca della Santa Sede dov’ero andato per fare una ricerca sulla Marina vaticana e De Gasperi mi disse: «Ma lei non ha nulla di meglio da fare? ». Non ero niente, non mi ero mai posto il problema di una scelta politica. Avevo diciannove anni. Ma l’incontro con quell’uomo, De Gasperi, fu una specie di scintilla. Aveva un tale fascino, una tale capacità di convinzione. E la scintilla mi rivelò cose in cui credevo senza che mi rendessi conto di crederci, mi condusse quasi naturalmente alla scelta. Voglio dire: non mi sorse mai il dubbio di poter fare un’altra scelta: entrare nel partito socialista, ad esempio, o nel partito liberale. Per carità, mai avuto tentazioni del genere. Quanto ai comunisti, già allora ero certo della non conciliabilità tra comunismo e democrazia. C’è una lettera a Franco Rodano, 16 ottobre 1943, che lo dimostra. Rodano apparteneva al gruppo dei comunisti cattolici: gente di cui ero amico e a cui volevo bene. E il papa, Pio XII, era piuttosto allarmato da quei comunisti cattolici. Così, quando all’inizio del’43 furono arrestati, mi preoccupai subito che egli non li sconfessasse in un certo discorso che doveva tenere agli operai nel mese di giugno. Oltretutto ciò avrebbe portato acqua al mulino di chi lo accusava di collusione coi fascisti. E mi recai subito da lui ma non lo trovai e gli lasciai un bigliettino. «Santo Padre, ero venuto a farLe visita perché ci sono questi ragazzi in prigione e vorrei pregarLa di non toccare quel tema…».
Un momento. E lei andava dal papa così, come io vo dal tabaccaio? Gli lasciava bigliettini così, come io li lascio alla mia segretaria?
Ma certo. Ero presidente della FUCI, andavo spesso dal papa. I grandi rami dell’Azione cattolica avevano un’udienza fissa col papa ogni due mesi e, in quel periodo, lo vedevo ancora più spesso. Era molto gentile con me, mi trattava con grande calore. Naturalmente non dimenticavo mai che lui era il papa e io uno studente di ventiquattr’anni, però… Insomma gli lasciai questo bigliettino e lui mi ascoltò. Nel suo discorso agli operai non fece allusione al gruppo dei comunisti cattolici e, due settimane dopo, quando tornai in Vaticano per accompagnare alcuni nostri dirigenti che venivano ricevuti in udienza generale, mi disse: «Sei contento?». Nessuno capì cosa intendeva dire ma io capii e risposi: «Molto contento ». Ah, Pio XII era un sant’uomo. Era un grande papa, il più grande di tutti. Solo a stargli accanto, a guardarlo, intuivi che era diverso: più illuminato, più ispirato, più eletto…
C’è chi dice il contrario. E poi sembra che picchiasse i cardinali.
Io non lo so. Se lo faceva, significa che lo meritavano.
Già. Però mi sorprende che preferisca Pio XII a Giovanni XXIII.
Ecco, sì. Perché vede… insomma… il tipo di comunicativa che aveva Giovanni XXIII lo costringeva a scendere dal piedistallo. Una volta portai da lui i miei bambini e, per metterli a loro agio, dopo averli fatti accomodare, gli disse: «Vedete quest’armadio? Prima era tutto aperto e io ci ho messo gli sportelli perché mi sembrava una cappelliera». Giovanni creava subito un clima familiare, si comportava con molta semplicità. Però credo che fosse una semplicità molto intelligente, cioè molto finalizzata… Per esempio: ricordo il giorno in cui a Roma, al Tuscolano, quartiere popolare, si fece dare un microfono per parlare alla gente in piazza. Non era previsto che parlasse, e gli portarono il microfono e ne venne fuori un discorso così: «Vedete, Roma è una città difficile perché è una città dove i meriti non vengono riconosciuti. Oppure dove si regalano meriti che le persone non hanno. Per esempio di me si dice che sono umile perché non voglio andare in sedia gestatoria. Ma non è che io non ci vada perché sono umile: non ci vado perché sono grasso e, sulla sedia gestatoria, ho sempre l’impressione di cadere». La risata che scoppiò! Ce l’ho ancora negli orecchi. E poi disse: «Sentite, giovani. Io vi prego d’esser gentili. E d’esser gentili con le vecchie perché con le giovani lo siete anche troppo». Mi spiego?! Queste due cose dette così, da un papa. Dopo fece anche dieci minuti di predicuccia come la fa un parroco di cappa e spada, intendiamoci. Però prima, la gente, l’aveva fatta ridere.
Ha conosciuto bene anche lui?
Oh, sì! Benissimo. Per ragioni di famiglia. Da giovane egli era stato amico intimo di uno zio di mia moglie, cioè il fratello di mia suocera, che era sacerdote archeologo qui a Roma. Eran rimasti molto legati e, per esempio, quando mio zio si ammalò, papa Giovanni venne a trovarlo. Poi, quando mio zio morì, andò a veder la sua tomba e… insomma lo incontravo spesso.
Perbacco! Conosce bene anche Paolo VI?
Oh, sì, certo! Benissimo. Era assistente della nostra organizzazione universitaria cattolica. Però lui da qualche tempo lo vedo poco. L’ultima volta, si figuri, l’ho visto il 2 gennaio scorso in udienza generale, accompagnando un gruppo di ciociari per il settimo centenario di San Tommaso d’Aquino. In genere evito di recarmi da lui. Sa, per non confondere il sacro col profano. Per ragioni politiche, mi spiego? Direi che in Vaticano ci andavo di più prima. Del resto, anche allora ci andavo con parsimonia. Oh, i nostri contatti col Vaticano sono minori di quanto la gente creda. Voglio dire: nelle grandi cose… negli interessi comuni come il Concordato… si capisce che… Ma per il resto… Pensi, in tutto il periodo di Pio XII, De Gasperi è stato in udienza solo due volte. Le altre volte ci è andato per partecipare a qualche manifestazione. Ad esempio per L’Annonce faite à Marie di Claudel. No, col Vaticano non abbiamo tutti i rapporti che crede.
Ah! Su questo mi permetta d’essere incredula. Specialmente nel suo caso. Lo sanno anche i bambini che se in Italia v’è un uomo legato agli ambienti ecclesiastici, questi è Andreotti. Papi a parte.
Rapporti personali, sì. Legami, sì. Ma la maggior parte di questa gente io la conosco da tempi in cui pensavo a tutto fuorché alla politica. E, comunque, il mio non è un rapporto clericale. Tanto per dirne una: le scuole religiose son piene di figli di persone che si considerano nemici irriducibili della Chiesa e a me, invece, non è mai venuto in mente di mandare i miei figli a studiare in una scuola religiosa. Il fatto d’essere un cattolico convinto non mi condiziona, ecco. Semmai mi permette di rimuovere ostacoli. Non è un mistero che per tanti anni, qui a Roma, non si riuscisse a fare una moschea perché ciò turbava-il-carattere-sacro-della-città. Poi, durante i pochi mesi del mio governo, venne re Feisal. Quello delle aranciate. Voglio dire quello che non beve alcoolici senza che nessuno gli dia del bacchettone. E mi parlò della faccenda, e mi sembrò talmente giusta che subito ottenni il permesso di costruire una moschea pei musulmani.
Senta, Andreotti: ha mai pensato di farsi prete?
È difficile dirlo. Forse avrei potuto, non so. Se ciò può darle un’idea, da ragazzo passavo sempre le vacanze insieme a due coetanei e uno di questi, ora, è nunzio apostolico: l’altro è arcivescovo a Chieti. Però mi son sempre trovato benissimo nella mia locazione di marito e padre di famiglia, mi è piaciuta sempre di più e non ho mai avuto rimpianti. Forse perché sono stato fortunato e ho avuto un’ottima moglie, ragazzi normali e studiosi… Comunque non posso dire d’aver mancato alla vocazione di prete. La mia sola vocazione mancata è quella di medico. Oh, fare il medico mi sarebbe piaciuto moltissimo. Ma non potevo permettermi sei anni di medicina. Non ero ricco. Mio padre, un maestro elementare, era morto quando ero appena nato: appena iscritto all’università, dovetti mettermi a lavorare. Mi iscrissi a legge, mi laureai con l’idea di fare il penalista. Con enorme rimpianto, però. Sì, enorme. Infatti ce l’ho ancora. Pazienza, ormai è andata. Il bello è che nessuno dei miei figli ha voluto studiar medicina. Uno si è laureato in filosofia, uno si laurea adesso in ingegneria, il terzo in legge, e la quarta fa il secondo anno di archeologia.
Bè, se avesse fatto il medico, oggi non sarebbe uno degli uomini più potenti d’Italia. Non vorrà negare infatti che, nel suo caso, la politica è sinonimo di potere.
Io direi di no. Nel mio caso non assocerei affatto la parola politica con la parola potere perché guardi: io, quando scrivo o partecipo a una discussione, mi sento più entusiasta politicamente di quando ho responsabilità di potere formale e concreto. La cosa che mi ha dato più soddisfazione in questi venticinque anni è stata fare il capogruppo alla Camera. Certo, bisogna stabilire la definizione di potere. Per la stampa, ad esempio, il potere è quello che si vede nel suo aspetto esterno. Se uno è ministro delle farfalle e dice che oggi è venerdì, subito riportano le sue parole con ossequio: «Il ministro delle farfalle ha dichiarato che oggi è venerdì». Se invece elabora una teoria o esprime un’idea, ha difficoltà a metterla in circolazione. In altre parole, se per potere si intende avere un dato peso e far valere certe idee, indurre gli altri a tenerne conto, allora mi sento abbastanza uomo di potere. Anche se a volte mancano gli strumenti del comando…
A chi? A lei?!? Lei che ha tanta influenza sulla polizia, sull’esercito, perfino sulla magistratura? Lei che è stato amico di tre papi, che fa di mestiere il ministro e possiede i dossier di tutti i politici italiani?!?
Queste sono leggende assolute. Se vuole consultare il mio archivio, glielo faccio vedere. È a sua disposizione, veramente. Certo, quando uno è stato per anni ministro della Difesa, conosce molta gente. E io conosco molta gente: non v’è dubbio. Ma non ho mai ritenuto che il potere consistesse nel farsi i fascicoli per ricattare. Non ho cifrari segreti. Ho solo un diario che scrivo ogni sera che Dio manda in terra: mai meno di una cartellina. Se per caso una sera ho mal di testa e non scrivo, il giorno dopo riempio subito il vuoto. Così, se devo fare un articolo su qualcosa che accadde venti anni fa, consulto il mio diario e trovo cose che non troverei certo sui giornali. Certo, lo tengo in modo tale che nessuno può capirlo all’infuori di me e son cose che tengo solo per me. Quello nessuno deve leggerlo all’infuori di me. È proprio segreto, e spero che i miei figli lo brucino il giorno in cui morrò. Ma i miei fascicoli, creda, consistono solo in ritagli di giornale. Se vuole consultarne uno glielo do. Avanti, dica un nome. Lo dica.
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