Qualche settimana fa Milena Gabanelli ha raccontato su Sette il suo tentativo di avvicinare Oriana Fallaci. «Buongiorno, mi chiamo Milena Gabanelli, sono una collega». «La signora Fallaci non ha colleghe», rispose indispettita la segretaria della giornalista fiorentina. Episodi come questo, uniti all’ossessione per la riservatezza e alla scelta di ritirarsi a vita privata, nell’Upper East Side di Manhattan, hanno contribuito ad alimentare l’aura di mito attorno a uno dei personaggi più controversi, discussi e tenaci del Novecento culturale italiano.
La donna che ha messo (verbalmente) alla sbarra i grandi della Terra odiava essere intervistata, perché considerava l’intervista «una giacca troppo stretta, che impedisce di muovere la fantasia e l’intuizione, di immaginare quello che c’è dietro e dentro le risposte», un indumento che obbliga «a essere precisi, coerenti». Ma il teatro, corpo e voce di Monica Guerritore, ha potuto arrivare laddove pochi hanno osato spingersi. Realizzare un’intervista a trecentosessanta gradi alla Fallaci, il personaggio che ha vissuto di coraggio e di estremismi, e a Oriana, la donna, coi suoi valori, i suoi slanci, i suoi drammi.
“Mi chiedete di parlare”, lo spettacolo adesso in scena al Teatro Eliseo di Roma (7-26 maggio), rappresentato per la prima volta due anni fa al Festival dei Due Mondi di Spoleto, non è solo un bel monologo in cui una grande attrice italiana risponde alle domande di un’immaginaria cronista (la cui voce, in realtà, è quella di una giornalista in carne e ossa, la critica teatrale del Corriere della Sera Emilia Costantini). È la storia di una persona che ha vissuto la vita intera come un romanzo di avventura, perché la sua biografia potesse essere indistinguibile dai libri dell’amato Jack London. Il Messico delle proteste universitarie, in cui fu creduta morta, il Vietnam e la Cambogia della guerra americana, il Libano delle mille confessioni religiose, il Kuwait invaso da Saddam. Se è vero che nella storia dell’uomo è guerra il termine forte, la costante, la regola, mentre la pace non è che la sua assenza, la Fallaci ha raccontato l’umanità. E lo ha fatto interpretando, andando oltre, restituendo il mondo «con l’aiuto dell’immaginazione, che è più vera della realtà». Raccontare significa dare corpo, sapore, odore, anima, in una parola profondità.
«La menzogna viene a patto con il vero, lo spirito dà forma al mito. E tutto questo non esisterebbe senza la parola», scriveva Paul Valery. Introduzione ineguagliabile per l’eterno dibattito sul new journalism, sul giornalismo che si fa letteratura e sulla letteratura che si fa giornalismo. Sui saggi scritti come se fossero romanzi, e sui romanzi che ambiscono a essere considerati dei saggi. Oriana Fallaci faceva letteratura, preferiva il complesso al piatto, toglieva e aggiungeva. Nei reportage, come nelle celebri interviste, prima fra tutti quella con Henri Kissinger. Il segretario di Stato americano una volta dichiarò che l’unico errore della sua carriera fu l’intervista concessa alla giornalista italiana. Perché Oriana aggiunse delle frasi che lui non aveva pronunciato. Kissinger smentì. Salvo poi ammettere che sì, effettivamente, quello era il suo pensiero.
Kissinger era nella «cinquina degli stronzi», come Gheddafi e Saddam. Uomini al potere, non “potenti”, perché la differenza è sottile. Su dieci di loro, sostiene Oriana, cinque sono «poveri stronzi che hanno vinto la lotteria». Poi ci sono le persone fuori dell’ordinario, come Golda Meir, Deng Xiaoping, Indira Gandhi. E infine c’è Khomeini, «un tiranno da mandare in esilio», ma al tempo stesso «una persona francamente eccezionale». Per quale motivo? Perché non la fece impiccare quando lei, in odio alle costrizioni e ai regimi, si tolse l’ingombrante chador di fronte al grande ayatollah.
Dallo spettacolo, ispirato a libri, interviste, ricordi, appunti lasciati dalla giornalista, integrati dai racconti di chi le è stata vicina, emerge il ritratto di una donna tanto convinta delle proprie idee quanto risoluta nel difenderle, anche contro l’opinione collettiva. Un personaggio difficilmente sfiorato dal dubbio, per cui la zona grigia ha sempre connotazione negativa, perché la storia ha sempre un noi e un loro, una ragione e un torto. Sin da quando, da bambina, correva piangendo sotto i bombardamenti e scavalcava «i corpi di quelli che non avevano corso abbastanza».
La piccola staffetta partigiana è diventata la donna che trasforma gocce d’inchiostro in parole, che alimenta una «lugubre dimestichezza con le armi, le esplosioni, la paura, la morte», che pubblica libri sofferti con i quali coltiva un rapporto filiale. Sul palcoscenico dell’Eliseo, occhiali scuri e sigaretta accesa, passeggia Oriana che parla con «il bambino mai nato», «un nodo di cellule appena iniziate», a cui chiede un cenno, un indizio, per sapere se debba o no restituirlo al silenzio.
C’è Oriana che si rivolge ad Alexandros Panagulis, il grande amore, l’oppositore del regime dei colonnelli greci, scomparso in circostanze sospette, come l’amico Pasolini. C’è Oriana che piange la morte della madre, l’anticipo della propria morte, come per chiunque, perché «il tuo sangue è il suo sangue, il tuo corpo è un’estensione del suo corpo». C’è Oriana che dichiara pubblicamente la sua malattia, il cancro, attribuito alla “Nuvola nera” respirata in Kuwait, «l’equivalente di dieci miliardi di sigarette», dopo il bombardamento a un pozzo di petrolio lanciato dal detestato Saddam. E c’è l’ultima grande battaglia, quella che la condusse a rompere l’isolamento mediatico newyorchese, dopo l’abbattimento delle Torri Gemelle, la prima guerra in cui la gente «muore ammazzandosi, non ammazzata». Una crociata nata sulle colonne del Corriere della Sera, portata avanti a colpi di pamphlet, con toni a tratti millenaristici, dettata dalla Rabbia e dall’Orgoglio, contro l’Ipocrisia dell’Occidente e il nuovo Totalitarismo islamico.
L’elmetto portato sulla penna, la scelta dell’iperbole – vedi alla voce Euroarabia – al di là delle inevitabili strumentalizzazioni politiche, non fecero altro che accrescere la distanza da quel mondo intellettuale in cui non si era mai riconosciuta, e verso cui provava un malcelato disprezzo. L’uno contro tutti era il suo modus vivendi. O meglio, Oriana era una donna che stava dalla parte di se stessa. E quindi «me frego dei guelfi, vaffanculo ai ghibellini». Oriana in fondo era una misantropa che considerava la solitudine «il solo modo per sfuggire a tutto quello che è stupido, falso, volgare e brutto», fiera di un talento che considerava la sua vera, grande, libertà.
Convinta che il mondo, per usare le parole di un altro grande amore, il giornalista della France Press François Pelou, non sia altro che un grande palcoscenico, e che l’importante sia attraversarlo bene. E che attraversarlo bene significhi «non cadere nel buco del suggeritore, non paralizzarsi nella paura, credere in qualcosa e battersi». Senza timore di sbagliare, perché l’errore è sempre meglio del nulla.