Chi governa ripete che il problema numero uno è la sicurezza, chi si trova all’opposizione ribadisce la massima clintoniana: “It’s the economy, stupid”. Succede in Pakistan, alle vigilia di elezioni in un certo senso storiche. Sì, perché il voto dell’11 maggio è il primo a svolgersi dopo che un governo di stampo civile, democraticamente eletto, ha completato interamente il suo percorso. Una felice eccezione, in un Paese noto per lo strapotere della classe militare e per una serie infinita di putsch.
Si attende un’affluenza superiore rispetto alle elezioni del 2008, dalle quali uscì vincitore il Pakistan People’s Party (Ppp) guidato da Ali Zardari, vedovo di Benazir Bhutto, figura primaria della politica nazionale, uccisa in un attentato a Rawalpindi il 27 dicembre del 2007. Zardari fu poi eletto alla presidenza della Repubblica, mentre la carica del premier negli ultimi cinque anni ha spesso cambiato proprietario, anche per via degli interventi a gamba tesa della magistratura.
L’ultimo mese della legislatura è stata marcato da un’escalation della violenza talebana: più di 70 morti in una serie di attacchi, dalla regolarità quasi quotidiana, contro i candidati dei tre partiti al governo, il Ppp, l’Awami National Party (Anp) e il Muttahida Quami Movement (Mqm). Che la sicurezza sia un problema enorme è quindi un fatto lapalissiano. Per gli studenti coranici, la cui rete, seppur colpita dalla lunga campagna militare dei droni americani, controlla buona parte delle regioni montagnose al confine con l’Afghanistan, le elezioni servono solo «agli infedeli e ai nemici dell’Islam». I partiti secolari, compromessi con l’Occidente, devono essere annientati.
La violenza sta raggiungendo il proprio scopo: impedire la campagna elettorale. I candidati viaggiano scortati, i comizi sono sempre più rari, gli oratori sono costretti a parlare per telefono o a incontrare i propri elettori in luoghi nascosti, lontano dall’arena pubblica. Le forze al potere cercano di volgere a proprio vantaggio questa oggettiva difficoltà. I fondamentalisti, ripetono, vogliono un governo più molle in materia di sicurezza, più incline a stringere patti con lo Stato-nello-Stato qaedista, in sostanza più disposto ad accettare un cedimento delle libertà in nome dell’Islam conservatore.
In realtà non sono mancati gli attentati contro le forze religiose, come quello lanciato lunedì scorso durante un raduno di Jamiat Ulema-e-Islam (Jui), che ha lasciato sul campo 26 cadaveri. I talebani, però, hanno voluto precisare che l’obiettivo non era il partito in sé, ma il candidato, considerato un traditore. I guerriglieri pashtun hanno invece risparmiato il frontrunner del voto, Nawaz Sharif, due volte primo ministro tra il 1990 e il 1999. Dopo 14 anni passati tra esilio e opposizione sembra essere arrivato il suo turno.
Più che la sicurezza, è la crisi economica, aggravata da una corruzione endemica e rappresentata simbolicamente dai continui black out elettrici, a far pendere la bilancia verso di lui, il politico business-friendly a cui affidare le chiavi del Paese. Sharif nega di essere morbido nei confronti dei talebani, ma parla di un approccio nuovo e prospetta la revisione delle corti speciali anti-terrorismo. La sua Pakistan Muslim League è particolarmente forte nella provincia più popolosa, il Punjab, i suoi governi sono ricordati per aver svolto un buon lavoro, soprattutto in materia di infrastrutture. L’autostrada fatta costruire tra Lahore e Islamabad ne è la testimonianza più evidente
Tutt’altro umore per un acerrimo nemico di Sharif, Pervez Musharraf, il generale che lo defenestrò nel 1999. Il ritorno a casa dell’ex Napoleone pakistano è stata una sequela di Waterloo. Già accreditato di scarsi consensi, Musharraf si è trovato di fronte il nemico con cui aveva duellato a lungo durante la presidenza, la magistratura. Prima la sua candidatura è stata considerata nulla, poi il generale è stato addirittura arrestato per una vecchia vicenda, la destituzione di alcuni giudici, a partire dall’attuale presidente della Corte Suprema Iftikhar Mohammad Chaudhry.
Anche il clan Bhutto – in Asia la politica è spesso affare di famiglie – non gode certo di buona salute politica. Il giudizio diffuso su Zardari è impietoso: il presidente è considerato un corrotto e un incapace. Inflazione galoppante e assenza di riforme economiche hanno segnato l’ultimo quinquennio pakistano. Senza la stella di Benazir, il Ppp non riesce ad andare al di là del tradizionale voto rurale, soprattutto nella provincia del Sindh, eredità di vecchie politiche populiste, né può affidarsi al 24enne Bilal, ultimo erede della dinastia, troppo inesperto e ancora poco conosciuto.
L’unico ostacolo sulla strada di Sharif sembra essere Imran Khan, ex capitano carismatico della nazionale di cricket, condotta al titolo mondiale nel 1992. Ha fondato il Movimento per la Giustizia nel 1996, ma solo negli ultimi anni è diventato un leader politico riconosciuto. Si è schierato in prima fila nel denunciare i raid dei droni americani ed è il vero jolly del voto di sabato. Khan è uno dei pochi a tenere comizi – grazie alla benevolenza dei talebani, che hanno fatto sapere di non volerlo colpire – in cui attinge a mani bassi dal vocabolario grillino. Parla di uno tsunami che dovrebbe spazzare via i vecchi partiti, con il loro corollario di corruzione, violenza e soprusi. Gode di una popolarità che precede la carriera politica. Piace all’elettorato giovane e urbanizzato, elemento centrale di questa tornata elettorale. Promette una riforma fiscale e corposi investimenti nell’educazione. Rifiuta accordi di desistenza con le altre forze politiche, augurandosi di essere l’ago della bilancia, ad urne chiuse. Gli ultimi sondaggi – prima dell’incidente che lo ha coinvolto martedì, quando è caduto da un montacarichi durante un comizio – danno sostanza a questo suo auspicio.
In un Paese dagli equilibri precari, alleato degli Stati Uniti, ma ambiguo nella lotta al terrorismo, marcato da una continua conflittualità tra magistratura e politica e dal doppio-giochismo dei servizi segreti, Sharif sembra il più adatto ad intervenire con il bisturi, senza forzare troppo la mano. Negoziare coi militari senza umiliarli, trattare con il Fondo Monetario per un prestito che dia ossigeno all’economia, fondare rapporti di buon vicinato con l’India, strizzare l’occhio alla Cina senza far arrabbiare troppo gli americani: vasto programma per il futuro premier. Anche perché, come fa notare giustamente l’Economist, le elezioni di sabato sono solo la prima tappa del lungo processo da cui uscirà un nuovo Pakistan. A settembre bisognerà eleggere il nuovo capo dello Stato, al posto di Zardari. A novembre andrà in pensione il generale Ashfag Kayani, potente capo delle forze armate. A dicembre ad uscire di scena sarà Chaudry.