Altro che luce al fondo del tunnel. La situazione macroeconomica dell’Italia è ancora precaria. A dirlo è la Commissione europea che, nelle raccomandazioni per la prevenzione e la correzione degli squilibri, ha messo nuovamente in guardia Roma sulla sua condizione economica. E c’è una frase su tutte che testimonia l’effimera performance del Paese sui mercati obbligazionari, nei quali «L’Italia è quindi alle prese con gravi problemi di aggiustamento. Il miglioramento delle partite correnti non modifica la necessità dell’Italia di dover far fronte ai gravi problemi di produttività e di competitività che il paese si trova ad affrontare». La cristallizzazione dei mercati finanziari, dovuta in gran parte alle azioni di Banca centrale europea, Federal reserve e Bank of Japan, non è destinata a durare in eterno. E il tempo a disposizione dell’Italia potrebbe essere meno del previsto.
L’aggiustamento di bilancio effettuato nel 2012 può considerarsi positivo. Ma non basta, occorre fare di più. Il motivo lo spiega la Commissione a chiare lettere: «l’Italia rimane vulnerabile agli improvvisi cambiamenti del sentimento del mercato, il che evidenzia la necessità di proseguire il risanamento di bilancio in termini strutturali». Colpa di un debito pubblico che aumenta sempre più, a cui fa il paio una crescita economica stagnante e al di sotto delle potenzialità dell’economia italiana. E la ragione di questa situazione anemica sono le carenze strutturali del Paese. Le stesse che devono essere affrontate tramite le sei raccomandazioni. Anche perché, come ricorda Bruxelles, «il Pil reale si è ridotto di oltre il 7% dall’inizio della crisi, scoppiata a metà del 2008». E il settore finanziario non può dare una mano alla ripresa economica. O meglio, non quanto potrebbe. La Commissione ricorda che «la più lunga recessione del Dopoguerra ha significativamente compromesso la capacità del settore finanziario italiano di sostenere la ripresa economica e di favorire il necessario aggiustamento verso attività più produttive». Se a questo si aggiungono un credit crunch in aumento, dovuto anche agli squilibri dei mercati interbancari dell’eurozona, e l’erosione del risparmio delle famiglie, il quadro diventa sempre più precario. Come se non bastasse, «tra la fine del 2007 e la fine del 2012 il rapporto debito pubblico lordo/PIL dell’Italia è aumentato di circa 24 punti percentuali di Pil». Un fenomeno imputabile al calo del Pil, specie nell’ultimo periodo analizzato, ma che è il simbolo della crisi italiana, anche sotto il profilo della fiducia degli investitori. Sono ancora molti, infatti, i dubbi sulla sostenibilità a lungo termine del debito italiano.
Come ampiamente previsto, il lavoro di spending review deve continuare. È il primo punto, forse il più importante nel breve termine. Al fine di mantenere il rapporto deficit/Pil al di sotto dei parametri del Fiscal compact, ovvero il 3%, serve uno sforzo duraturo e maggiore. Inoltre, occorre che le riforme introdotte negli ultimi 18 mesi non siano sprecate, ma siano attuate il prima possibile. Serve che il sistema bancario diventi più efficiente e redditivo. Il motivo lo spiega Bruxelles nell’analisi approfondita. «La resilienza del settore bancario italiano è diminuita notevolmente a partire dalla metà del 2011, compromettendo la capacità delle banche di sostenere l’attività economica e l’aggiustamento», scrive la Commissione. Il quarto punto riguarda il mercato del lavoro, la cui riforma non deve essere esaurirsi. L’obiettivo è quello di allineare in modo migliore i salari alla produttività, oltre che combattere la disoccupazione attraverso misure più inclusive. Poi bisogna modificare l’attuale sistema fiscale. In altre parole, la Commissione raccomanda di «trasferire il carico fiscale da lavoro e capitale a consumi, beni immobili e ambiente assicurando la neutralità di bilancio». Un obiettivo più facile a dirsi che a farsi. Infine, aumentare l’apertura dei mercati italiani, a cominciare da quello dei servizi. Corruzione, sprechi, efficacia dei servizi locali, concorrenza, accesso ai singoli mercati: sono questi i punti che devono essere migliorati al fine di ridurre al minimo i gap strutturali fra l’economia italiana e quella dei competitor europei. Traduzione: se l’Italia vuole smettere di far parte della zona periferica dell’area euro non può esimersi da questi sforzi.
Poco importa se la Commissione Ue abbia proposto la chiusura della procedura d’infrazione per deficit eccessivo (EU Excessive deficit procedure, o Edp) ai ministri dell’Ecofin, che con ogni probabilità ratificheranno l’uscita dall’Edp. Come ha detto il Commissario Ue agli Affari economici e monetari Olli Rehn, i margini di manovra dell’Italia sono risicati. Il deficit per l’anno corrente è previsto al 2,9%, ma la preoccupazione riguarda la sospensione dell’Imu, che deve essere compensata da misure in grado di non gravare sulle finanze pubbliche. «È un atto positivo, e di fiducia, che premia gli sforzi del Paese negli ultimi mesi», dice a Linkiesta un funzionario della Commissione Ue. Ma è un premio a doppio taglio, che non deve essere sprecato. «Sprecare quest’occasione sarebbe ingenuo da parte dell’Italia», dice il funzionario, che spiega anche di essere fiducioso nell’operatore del ministro delle Finanze Fabrizio Saccomanni.
Le raccomandazioni di oggi sono molto vicine a quelle contenute in altri due documenti passati alla storia. Il primo è la lettera inviata dalla Banca centrale europea (Bce) nell’estate del 2011. Non erano ancora i giorni più neri dell’Italia, ma ne erano il preludio. In quella occasione, la Bce chiese all’Italia alcune riforme strutturali, fra cui quella del mercato del lavoro e delle pensioni, al fine di ridurre al minimo l’emergenza. I tempi erano diversi, i problemi analoghi a quelli di oggi. La lettera della Bce doveva essere il vincolo, informale ma non per questo meno importante, per il governo di Silvio Berlusconi per garantire l’avvio del programma di acquisto dei bond governativi italiani sul mercato obbligazionario secondario, il Securities markets programme (Smp). E non è un caso che le raccomandazioni siano anche simili alle domande inviate nell’autunno 2011 da Olli Rehn al ministro delle Finanze Giulio Tremonti. Rileggendo oggi le 39 domande è lecito sorridere, dato che sono ancora attuali. Sarebbe forse bastato copincollare le 39 questioni, modificarle in minima parte e presentarle al governo corrente. Il tempo passa, i governi pure, la Bce vigila, i problemi strutturali restano.
Oggi Enrico Letta ha dato al suo governo un orizzonte temporale all’interno del quale adottare le riforme. Saranno necessari 18 mesi. Un anno e mezzo in cui il governo dovrà dimostrare che l’Italia ha meritato due cose. Da un lato l’uscita dall’Edp, dall’altro la fiducia dei partner europei dopo una tornata elettorale non certo esaltante. Le risorse che si sbloccheranno da oggi, fra gli 8 e i 10 miliardi di euro, sono una goccia nel mare. Ed è per questo che non bisogna abbassare la guardia. Facile a parole, difficile se si è alla guida di una coalizione di governo tanto raffazzonata quanto ballerina come quella guidata da Letta.