Profughe siriane: il dramma dei matrimoni combinati

I rifugiati siriani fra Giordania, Libano e Turchia sono un milione e mezzo

«Puoi chiamarlo stupro, puoi chiamarla prostituzione, puoi chiamarlo come vuoi. In ogni caso, significa violenza del più forte sul più debole», sentenzia Andrew Harper, il rappresentante in Giordania dell’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati (UNHCR). Ogni giorno vede ingrossarsi le fila davanti al suo ufficio, nel centro di Amman. Sono 500.000 i rifugiati siriani nel solo regno hashemita. In gran parte madri che hanno perso la casa e, molto spesso, i mariti. Donne che hanno un’unica «risorsa», il proprio corpo e quello delle proprie figlie. I matrimoni combinati non sono affatto rari nel mondo arabo. Ed è prassi che la famiglia dello sposo paghi una certa somma a quella della sposa. 

Ma queste sono storie diverse, e la differenza è data dal loro numero e dal loro movente, la disperazione. Nessuna spiegazione potrebbe essere più esaustiva rispetto a quella fornita da Manal, una donna siriana che si è confessata ai microfoni della Bbc: «Qui la vita qui è molto dura e riceviamo pochissimo aiuto. Ho un bambino piccolo, che ha bisogno di latte, e non me lo posso permettere. Così ho deciso di sacrificare Kazal per aiutare gli altri membri della famiglia». Kazal è la figlia diciottenne, che ha appena divorziato da un uomo di cinquant’anni, un saudita che aveva pagato 3.100 dollari per averla in sposa. Un matrimonio lampo, una sola settimana, ma d’inferno. Il marito, dice Kazal, la considerava una schiava.

Harper ammette l’impotenza: «Non abbiamo risorse sufficienti per dare aiuto a tutti coloro che hanno bisogno. La maggior parte dei rifugiati è costituita da donne e bambini, e molti di loro non hanno mai lavorato. A questo punto il sesso diventa l’unico strumento a loro disposizione». Facile immaginare come le donne siriane, e soprattutto le loro giovani figlie, siano entrate nel mirino di uomini arabi, generalmente di età media o avanzata, in buona parte provenienti dai paesi del Golfo Persico. Seguendo la legge della domanda e dell’offerta, il prezzo di una sposa è calato. Il mercato si è fatto più strutturato, si è pullulato di mediatori.

È stata proprio una ong con sede ad Amman, Kitab al-Sunna – organizzazione sostenuta dalle donazioni di tutto il mondo arabo, che fornisce denaro, cibo e medicine ai rifugiati – a combinare il matrimonio di Kazal: «Quando sono andato nella sede di Kitab al-Sunna per chiedere aiuto», racconta Manal, «mi hanno domandato di mostrargli mia figlia e mi hanno detto che le avrebbero procurato un marito».

Il direttore della ong, Zayed Hamad, conferma il ruolo di mediatore, ma lo illumina di una diversa luce: «Riceviamo molte richieste di uomini arabi, che cercano donne siriane, maggiorenni. Vogliono aiutarle, vogliono sostenere soprattutto quelle che hanno perso i loro mariti, considerati martiri di guerra. Le siriane sono considerate tra le arabe più belle, e sono viste come buone casalinghe».

Il confine tra aiuto e sfruttamento è molto labile, e in Siria è stato superato abbondantemente. Infatti Um Mazed – nome rigorosamente fittizio – 28 anni, rifugiata siriana originaria di Homs, si autodefinisce marriage brokers, ma prova vergogna per quello che fa e fornisce una versione diversa da quello del suo principale: «Gli uomini hanno generalmente tra i 50 e gli 80 anni. Chiedono ragazze con la pelle bianca, occhi azzurri o verde, spesso giovanissime, non più di sedici anni». Il tariffario, sostiene, è di 70 dollari per un incontro, più ulteriori 310 dollari se l’esito è un matrimonio combinato. A volte si arriva a cifre superiori, soprattutto per le vergini. Um Mazed si arrampica sugli specchi – «non è prostituzione, c’è un patto tra sposo e sposa» – ma i matrimoni spesso sono solo un pretesto per il sesso e le giovani donne vengono abbandonate dopo poche settimane. Alla debole autodifesa segue l’ammissione: «Non ho alternative. Come potrei andare avanti, dal momento che riceviamo così poca assistenza? Come potrei pagare l’alloggio e vivere decentemente?».

D’altronde, la capacità di accoglienza dei giordani è arrivata ai limiti del collasso. Nel solo campo di Zaatari ci sono più di 100.000 persone. La scorsa settimana tutti i quattro punti di frontiera «non ufficiali», utilizzati per scappare ai bombardamenti nella provincia siriana di Dera’a, sono stati chiusi, lasciando aperto il solo varco riconosciuto, quello di Jaber. Secondo l’Onu, il numero dei rifugiati nei Paesi confinanti – in ordine decrescente Giordania, Libano e Turchia – ha già raggiunto quota un milione e mezzo ed entro la fine dell’anno potrebbe salire fino a tre milioni e mezzo.

Lo United Nations Central Emergency Response Fund ha impiegato sinora 84 milioni di dollari per il sostegno alla Siria e agli Stati limitrofi. Dieci giorni la Banca Mondiale ha annunciato la costituzione di un proprio fondo per aiutare la Giordania a gestire l’emergenza, in previsione di una nuova, imponente, ondata di arrivi. Ma anche il Libano, dove peraltro la guerra civile siriana presenta periodicamente una coda militare, comincia ad avere difficoltà nel maneggiare questi flussi, soprattutto nella Valle della Bekaa. Anche nel Paese dei cedri la grande maggioranza dei rifugiati di Damasco (ben il 78 per cento) è composto da donne e bambini. Voci diffuse parlano di frequenti tentativi di molestie da parte di uomini libanesi, e non solo. Ragione per cui a volte il matrimonio combinato viene cercato dalle stesse siriane, in modo da avere una qualche forma di protezione. In fondo, chi «ha mangiato fame», come ricorda amaramente la quattordicenne Maya, cerca in primo luogo, ed in ogni modo, di sopravvivere. 

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