Da ragazzino non voleva fare il cosmonauta, questo è certo, Yuri Gagarin, primo uomo a orbitare intorno al pianeta un mattino di primavera. Non voleva nemmeno non farlo, però: semplicemente negli anni Quaranta della sua gioventù quella professione non esisteva e la conquista del cielo si limitava a quello di Londra, di cielo, o di Stalingrado. Nulla di troppo auspicabile, per qualsiasi bambino e ragazzo di allora e di oggi. Eppure cosmonauta lo diventò, tanto superstar che c’è persino un asteroide lassù, che porta il suo nome: 1772 Gagarin, per la precisione. Più probabile che volesse fare il calciatore, anziché il cosmonauta, già da bambino, il ragno nero Lev Yashin, che infatti calciatore diventò eccome, portiere tanto superstar che oggi anche per lui c’è un asteroide da qualche parte lassù: 3442 Yashin, per la precisione.
Voleva fare l’astronauta, anziché il calciatore, voleva navigare lo spazio e guardare il mondo a testa ingiù, Umbertino Guidoni, che di un pallone non sapeva cosa farsene e trascorreva il tempo con il naso all’insù, ad ammirare le stelle, i pianeti e quelle superstar di Armstrong e Aldrin a passeggiare sulla Luna. Era anche lui davanti al televisore quella notte d’estate ad ascoltare il battibecco tra Tito Stagno e Ruggero Orlando: ha toccato, ha toccato! Lo sognava e un giorno successe, che lassù ci andò pure lui, tanto che oggi l’asteroide 10605 Guidoni è nella mappa di qualche cielo.
Li ho visti insieme, una sera, Tito Stagno e Umberto, e sembrava di vedere un ragazzino al cospetto di un mito. Non era però chiaro a me e a loro, chi dei due fosse il mito e chi il ragazzino…
L’ho visto tante volte, Umberto, insieme a ragazzini di mille paesi e città a narrare il suo spazio, che è il nostro, ma suo un po’ di più. E i ragazzini sono loro, con lo sguardo sbalordito e un gruzzolo di curiosità in saccoccia; la superstar è lui.
A guardarli appare chiaro che chi da bambino voleva fare l’astronauta, da astronauta sa ritornare bambino, ancorché con la cravatta. E basta uno sguardo e un sorriso e si è amici da sempre, anche senza pallone. Che poi un pallone sa essere spaziale pure lui: il più pallone di tutti, il mitico Telstar bianco con i pentagoni neri, quello di Italia Germania quattro a tre, trasmessa via satellite dal Messico e dalle sue nuvole, portava il nome del primo futuristico satellite per telecomunicazioni. Telstar: sferico, chiaro, con macchie nere qua e là.
Non usa numeri o formule, Umberto, per raccontare i suoi due voli, ma ti svela che la Stazione Spaziale Internazionale, che lo accolse e che ancora galleggia lassù, è grande come un campo da calcio, guarda un po’, e orbita intorno al pianeta in un’ora e mezza: novanta minuti come quelli fino al triplice fischio finale.
Se sulla Luna ci vai in bicicletta sono quattro anni e mezzo di pedalate, giorno e notte, notte e giorno, che è più chiaro per farsi un’idea, rispetto a trecentottantamila chilometri, metro più, metro meno, che chissà quanti sono. La Luna lassù, molto più grande della Stazione Spaziale, ma molto più piccola della Terra, che è tanto più grande della Luna ma molto più piccola del Sole. E il Sole, così grande, è un punto minuscolo nella galassia che pure lei, apparentemente infinita, è piccola cosa nell’Universo intero…
Ti fa viaggiare avanti nello spazio e indietro nel tempo, Umberto, con i suoi anni-luce, che un righello così lungo non lo si è mai visto. Racconta che la Terra è una grande nave spaziale su cui viaggi anche tu, astronauta inconsapevole. Naviga nel vuoto da miliardi di anni, giorno più, giorno meno, per miliardi ancora. E se un ragazzo gli chiede chi guida, lui sorride e spera che non guidi nessuno di noi.
La sua, di astronave, te la descrive piccola e stretta, dove non c’è il sopra né il sotto e si resta leggeri anche se si mangia pesante. Non c’è spazio, nello spazio, con tutto lo spazio che c’è… Si vive uno accanto all’altro da molto prima del decollo, e quando ti racconta l’addestramento subito, qualcuno in sala è felice di non esserlo, astronauta. Ma per un volo lassù forse ne varrebbe la pena.
Volò nel Novantasei e nel cinematografico 2001, con Kubrick nel taschino, e quando lo ascolti ti accorgi che un po’ è ancora lì, metà nella prima, metà nella seconda missione, e ti chiedi quant’è grande la metà di un po’… E ci staresti anche tu, con lui, se ci fosse spazio. Ti vien da pensare che il vero motivo che lo ha spinto a volare è poterlo poi raccontare a noi terrestri e terreni. Invece poi capisci che non è un capriccio, andarsene in orbita, ma che ciò che accade sopra le nostre teste potrà tornare utile un giorno anche nelle nostre mani, terrene e terrestri. Prova a farcelo stare, un computer a tutta parete degli anni Sessanta, in una navicella con i passeggeri vestiti da omino Michelin, l’aria, l’acqua, il cibo e tutto il resto. Tocca ingegnarsi e fare un computer più piccolo, così piccolo che oggi ognuno ne ha uno sulle ginocchia o tra i polpastrelli. E grazie allo spazio, ora abbiamo più spazio.
Sono decine e decine le trovate cosmiche nella vita di tutti i giorni, ma nessuno lo sa: pneumatici, materassi, filtri, tessuti, scarpe, sistemi, apparecchi… e se mai arriveremo su Marte, avremo probabilmente risolto un paio di problemi anche qui, sulla Terra.
Con la medesima semplicità Umberto ti svela cos’è un buco nero e ti racconta come si fa pipì lassù e, mentre i ragazzi sghignazzano divertiti, tu non puoi non sorridere di fronte a una similitudine tanto evidente. Gagarin, invece, aveva il pannolone, ma mica voleva fare il cosmonauta, lui… E al portiere basta aspettare l’intervallo e correre negli spogliatoi.
C’è ancora spazio, nello spazio, per lanciare un sogno e, chissà, farlo tornare realtà. Se tra i pali non sei bravo come Yashin, tanto vale provare altre vie. La Via Lattea, per esempio, che poi è la pista da sempre della nostra astronave Pianeta Terra, anche se non ci si pensa mai. E in una galassia così non sarà difficile trovare un asteroide ramingo che, accanto a un numero, porti un giorno il tuo nome.