Siria: perché Assad potrebbe restare al potere

Il ba’athismo degli Assad è stato garanzia di equilibrio interconfessionale e interetnico

L’aspetto più preoccupante del conflitto siriano è che, da solo, è affetto da tutti i fattori di rischio che hanno caratterizzato i conflitti mediorientali dagli anni Ottanta all’ultima guerra civile in Libia. Come nel caso dell’invasione sovietica dell’Afghanistan, ci sono problemi nel rifornire di armi i ribelli, perché al termine degli scontri gli arsenali scomparirebbero nell’anarchia politica. Gli stessi gruppi ribelli siriani, una volta esclusi dal potere, potrebbero cercare avventure in altri scenari – così come fecero i reduci dell’Afghanistan che in Algeria diedero inizio ad anni di ferocia fondamentalista.

Come nell’ultimo conflitto iracheno, la rimozione del dittatore – Saddam allora, Assad oggi – farebbe saltare qualsiasi equilibrio non solo interconfessionale, ma anche interetnico. Ci sono numerosi parallelismi tra la regola di Saddam e quella degli Assad. Prima di tutto, entrambi i sistemi di potere alle origini si basavano sul ba’athismo, sorta di ideologia arabista, militarista e con spunti di socialismo. Serviva per creare un “sistema politico non religioso”, che potesse negoziare le istanze delle diverse culture racchiuse a forza nei confini mediorientali decisi dagli interessi dell’Occidente.

Rimosso Saddam, è esplosa una guerra civile ferocissima. Nel caso degli Assad, il problema è stato inverso: l’incapacità del sistema di potere di contenere la rottura dell’equilibrio tra sciiti e sunniti. Gli Assad appartengono a una confessione minoritaria degli sciiti, gli alawiti, paragonata da molti a una setta, fortemente mistica e secretiva. Ciò li distingue comunque dalle confessioni comunemente praticate nel paese, e ha consentito ad Hafiz Assad, padre dell’attuale dittatore Bashar, di sviluppare un sistema di potere familistico e assoluto.

Con questa prospettiva, se Assad venisse cacciato come Gheddafi non si giungerebbe ad alcuna soluzione del conflitto. Ancora peggio, il conflitto tracimerebbe e potrebbe provocare un collasso del quadrante mediorientale. Non possiamo dimenticare che la Siria è il vero punto di equilibrio del Medio Oriente, e lo è da sempre: un vecchio adagio – spesso attribuito a Henry Kissinger – recita che «in Medio Oriente non ci può essere guerra senza l’Egitto, ma non ci può essere pace senza la Siria». Nelle negoziazioni per una tregua, durante il conflitto dello Yom Kippur nel 1973, lo stesso Kissinger si recava a Damasco per parlare con Assad – al contrario degli altri leader arabi che dovevano incontrare Kissinger e Breznev altrove.

Poniamo quindi che i ribelli sunniti vincano in Siria. Così come sta già avvenendo, godrebbero del sostegno dei sauditi, e la regola fondamentalista wahabita si espanderebbe in Siria. A Sud della Siria c’è la Giordania, in cui la monarchia – anch’essa sunnita – è in difficoltà. Finora la Giordania ha appoggiato Israele anche per contenere la spinta della “mezzaluna sciita” che si espande dall’Iran, a parte dell’Iraq, alla Siria, fino al Libano meridionale (Hezbollah). Indebolita la mezzaluna sciita, la Giordania avrebbe tutto l’interesse a rivedere i propri rapporti con Israele, e punterebbe sul radicalismo – proprio per contenere la rivolta interna in formazione.

C’è una fortissima probabilità che se i sunniti vincessero, riesploderebbe anche il conflitto in Iraq – anche a causa del fatto che la Siria sunnita e l’Iraq potrebbero fare pressione congiunta contro i curdi al Nord, che occupano importanti aree petrolifere irachene.
Gli Assad hanno compreso bene questa situazione e hanno spostato il proprio equilibrio politico verso l’Iran – da qui il “servizio di consegna missili” che Assad sta prestando per recapitare armi sofisticate a Hezbollah, con Teheran come mittente. Israele non ha gradito ed è intervenuto due volte negli scorsi giorni per distruggere i container. Questo atto non è stato «contro Assad» o «per favorire i ribelli» – lo ha dichiarato apertamente lunedì 6 maggio alla radio Tzachi Hanegbi, un consigliere di Bibi Netanyahu. Il messaggio è nei confronti di Teheran: Hezbollah non può ricevere armi di quel tipo. Perché sia accettato da Israele, Assad non si deve sbilanciare.

È ormai chiaro che il famoso “conflitto tra Israele e Iran” si sta svolgendo in Siria. Israele ha da perdere se vincono i ribelli, ma ha da perdere anche se vince un Assad eccessivamente sostenuto dall’Iran. La dinamica di questo conflitto “per proxy” si sta svolgendo come se l’Iran fosse già una potenza nucleare: si cerca un impegno minimo, e qualsiasi intervento militare ha un valore fortemente politico, a parte che strategico.

L’unica alternativa possibile è trovare una qualche componente ribelle che sia in grado di garantire una “democratizzazione” priva, per quanto possibile, delle suggestioni fondamentaliste di altri gruppi, come la Fratellanza mussulmana in Egitto. Come premio avrebbe il sostegno occidentale, e come compito quello di riallacciarsi alla Giordania per creare un nuovo bastione occidentale nella regione.

Ma è una soluzione che l’Iran non accetterebbe, perché vedrebbe interrotto il suo collegamento con Hezbollah e il Libano meridionale in funzione anti-israeliana. Non l’accetterebbe neanche la Russia, che sostiene l’Iran nel suo disegno, e che conserva un ruolo in Medio Oriente proprio influenzando la stabilità israeliana.
Le notizie delle ultime ore parlano di Hezbollah che dichiara apertamente di combattere a fianco del governo, mentre Assad ha fatto sapere che risponderà a nuovi attacchi israeliani. Washington temporeggia, e a noi rimane un memorabile titolo del New York times: «La Casa Bianca mantiene salda la sua posizione di cautela». 

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