A inizio maggio l’Australia ha aperto un fascicolo presso il dipartimento del Tesoro con l’obiettivo di far pagare in loco le tasse alle Tech Companies. In primis Google, Apple e Amazon. E’ solo l’ultimo di una lunga serie di Paesi –Francia e Inghilterra si sono mossi per primi, ma anche l’Italia si sta dando da fare – a scagliarsi contro l’aggressiva pianificazione fiscale delle grandi compagnie on-line che consente loro di raggiungere globalmente aliquote che viaggiano tra il tre e l’otto per cento di tasse. Contro la media del 30% che spetta a chi opera entro i confini di un singolo Stato (Italia a parte dove la pressione sulle srl è doppia).
George Osborne, cancelliere inglese e tra i più accaniti oppositori della pianificazione fiscale, ha ribadito all’ultimo meeting del G7 dell’undici maggio la volontà di dichiarare guerra senza frontiere al tax dodging: azzerare la possibilità di spostare utili nelle nazioni dove non sono previste tasse sugli utili societari. «Esiste un sistema fiscale che risale al secolo scorso», ha detto Osborne, «ora l’Inghilterra si farà carico di portarlo nel Ventunesimo secolo». E ha poi snocciolato una serie di numeri per essere più efficace. Starbucks negli ultimi 15 anni ha versato 8,6 milioni di sterline di imposte. E nel 2011, a fronte di vendite per 398 milioni, nulla. Google nello stesso anno ha versato al Fisco Uk 6 milioni di sterline. Amazon 1,8 dopo aver annunciato 7,4 milioni di profitti e un fatturato di 3,35 miliardi.
Nel sistema comunque alcune spaccature si sono già formate. Non è un caso che il Ceo di Apple, Tim Cook, in una audizione al Senato Usa, ha già lanciato una proposta concreta. L’azienda ha liquidità per circa 100 miliardi, gran parte della quale è allocato su piazze offshore. Al momento il reimpatrio prevede un’aliquota secca del 35% e «non chiediamo imposte pari a zero ma un sistema più conveniente e più semplice da gestire», ha concluso Cook, di fatto aprendo la prima breccia nelle trattative tra le big e il Fisco americano. Che per inciso ha lanciato una prima accusa ad Apple aver eluso circa 74 miliardi di dollari.
Così a Londra è stato istituito un apposito comitato per indagare sulla presunta elusione fiscale dei colossi e soprattutto per trovare il modo di costringerli a rimpolpare la grande torta del gettito europeo. Infatti Osborne è il capofila di altri politici europei che la pensano allo stesso modo. Peccato che al momento l’unica leva su cui si sta facendo perno è l’aspetto morale. La politica deve creare consenso e in tempi di crisi abbattere le tasse dei singoli governi (diventati sempre più rapaci per la necessità di colmare i deficit) appare coem una questione sociale e morale. Ma è giusto considerare le tasse alla stregua di beneficienza? No.
I bilanci si fanno con le leggi
I bilanci infatti si fanno con le leggi e al momento non ne esistono in grado di imporre ai colossi di non spostare i loro utili. Ha ben risposto alle accuse di immoralità il presidente di Google, Eric Schmidt, in un’intervista alla Bbc. «Siamo rispettosi delle leggi inglesi come quelle di qualunque altro Paese», ha sentenziato, ricordando che sia un dato di fatto che il calcolo delle imposte per multinazionali che operano in tutto il mondo si effettui globalmente. «Lo stesso discorso», ha aggiunto, «vale per aziende Uk che operano anche negli Usa. Se poi il sistema dovesse cambiare per imporre a Google più tasse, l’azienda si adeguerà».
E il nodo della questione è tutto qui. Da un lato si può spingere su investimenti e creazione di nuove start up con relativi posti di lavoro (sono circa 2mila a Londra i dipendenti Google). Dall’altro lato si può basare il bilancio dello Stato sul gettito (esattamente come l’Italia ha fatto negli ultimi 25 anni), ma si finisce col dimenticare un principio basilare. Se si tassano le sigarette è per far smettere di fumare, perché mai con il lavoro e gli investimenti la logica dovrebbe essere diversa? Eppure emulando italici discorsi la laburista Fiona Mactaggart, membro della commissione che sta indagando su Google e le altre big, ha esposto la sua visione: «Siamo felici che le multinazionali investano in un’economia stagnante come la nostra, ma devono pagare le stesse tasse di un’azienda inglese e dobbiamo imporre la novità subito senza aspettare accordi internazionali».
Posta l’infattibilità del desiderio laburista (se si applica una tassa non globale le multinazionali si limitano a scappare), il riferimento indiretto è al cosiddetto “Double Irish Dutch Sandwich” (vedi tabella master of tax avoidance). Una triangolazione dei ricavi tra la sede irlandese della società (che opera sull’intera Europa), una controllata olandese e una con sede legale alle Bermuda alla quale la multinazionale ha concesso la licenza del suo software. E dove non sono previste imposte sugli utili generati al di fuori dell’isola. Un sistema totalmente legittimo (a oggi) che ha consentito a Google su 12,5 miliardi di entrate di denunciare utili pre tasse per 24 milioni. «Si tratta di una pratica ampiamente utilizzata da altre imprese globali che operano in diversi settori», ha spiegato Jane Penner, portavoce di Mountain View. Facebook a sua volta ha messo a punto un sistema simile che consente di veicolare parte dei profitti alle isole Cayman. Amazon invece dell’Irlanda ha scelto il Lussemburgo.
Secondo il Guardian, Amazon lo scorso anno avrebbe pagato all’erario britannico solo 3,2 milioni di sterline a fronte di vendite per 320 milioni. Ma la stessa azienda ha comunicato ai propri investitori di aver guadagnato nel 2012 nel Regno Unito ben 4,2 miliardi di sterline. Non solo, oltre il danno ci sarebbe pure la beffa. Il gruppo avrebbe infatti percepito 2,5 milioni di sterline di contributi pubblici, oltre a significativi sgravi fiscali per la costruzione di nuovi magazzini. Bene distinguere tra e-commerce e società tech. Sono fattispecie diverse di pianificazione fiscale e di esigenze.ma la sostanza cambia poco.
Tecnicamente il metodo funziona con il “transfer pricing”, ovvero movimenti contabili tra società controllate che consentono di spostare i proventi in sussidiarie con sedi offshore e di allocare le spese in quelle che operano in Paesi con aliquote elevate. Nel 2010 con il titolo «Antisocial Network» il quotidiano britannico The Indipendent dava la notizia che Facebook avrebbe pagato solo 238mila sterline di tasse per le sue attività nel Regno Unito a fronte d’introiti pari a 175 milioni. Mentre quest’anno la società di Mountain View nel primo trimestre 2013 è riuscita a pagare il 7,9% di tasse contro il 18 dello stesso trimestre 2012 (nel 2011 era il 16%). Sapiente operazione di mix tra utilizzo di incentivi fiscali Usa sugli utili reinvestiti in ricerca e sviluppo e transfer pricing di servizi raggiungendo un’aliquota media (sui profitti non americani) inferiore al 3%.
Gli obiettivi Ocse
Schmidt, dal canto suo, sembra aver ragione quando punta il dito sul fatto che ci siano pari opportunità anche da questa parte dell’Atlantico. Le società europee che vendono beni e servizi a cittadini americani tramite eBay non pagano infatti alcuna tassa negli Stati Uniti. Eppure nessuno si sogna di definire le loro attività immorali. Certo spostano molto meno gettito. E sempre qui andiamo a parare. Nella bibbia del tax planning al contrario, “addressing base erosion and price shifting” pubblicato dall’Ocse il 19 giugno 2012, si trovano le motivazioni per cui la comunità globale ha dichiarato guerra alle nuove forme di elusione e gli obiettivi finali.
Le motivazioni sono facilmente spiegabili: in un decennio il peso delle corporate income tax sul Pil Ocse è passato da un 3% al 10% e dunque non è più trascurabile ai fini del gettito. Inoltre come si vede dalla tabella Ocse il valore aggiunto prodotto in aree geografiche diverse dalle sedi fiscali è sempre più importante (tab pagina 26 e 27). Gli obiettivi finali sono invece più complessi. Alla prossima riunione del G20 in Russia si discuterà un documento comune per combattere i 400 diversi metodi di elusione fiscale. Il problema è che non si troverà un accordo perché l’interesse di alcuni stati è in netto conflitto con quello di altri. Anche se tutti sotto la bandiera Ocse.
L’organizzazione, come si evince anche dalla lettura del rapporto sul ruling internazionale, immagina una soluzione finale nella quale le nazioni si siedano attorno a un tavolo e immaginino che la tal società debba pagare un importo x di tasse su un profitto pari a y. E poi l’importo se lo suddividono gli Stati che hanno partecipato al tavolo di discussione. Non sappiamo se prima o poi si tratterà di realtà, ma certo è molto lontana. Lo fanno intuire i numeri del ruling preventivo diffusi nel 2012 dall’agenzia delle entrate. (tab pag 5 e 14). Sebbene i numeri siano estremamente esigui esiste la possibilità anche in Italia di trovare un accordo sul livello impositivo legato al trasfer pricing di società estere intenzionate a operare sulla penisola prima dell’avvio dell’attività. Di fatto si riduce di gran lunga la forchetta interpretativa che spesso, magari in assenza di smoking gun, rende i contenziosi molto lunghi e incerti. Lo scorso anno si è verificato un solo caso di ruling multilaterale in Ue, promosso dall’Olanda. Presenti Roma e L’Aja, Lussemburgo e Vienna non si sono presentate. Londra sì solo per annunciare che avrebbe disertato le successive sedute. Risultato? Nulla di fatto. D’altronde ogni Stato vorrebbe avere la maggioranza delle imposte sui profitti di una società transnazionale. Ma oltre al 100% non è dato andare.
La doppia morale Uk
In ogni caso suona bizzarro che una nazione come l’Inghilterra che per anni ha stimolato le piazze offshore, tramite le isole del Commonwealth, fornendo enormi benefici alla City, adesso che si trova dall’altra parte della barricata innalzi il vessillo della moralità. Eppure è così. Evidentemente dipende da che parte del gettito si vede la cosa. Un esempio concreto possiamo trarlo andando ad analizzare il rapporto speciale tra Londra e Jersey o tra Londra e Guernsey. Dove sono ancora domiciliate circa 33mila società alcune quotate nel Ftse 100 come Glencore, Shire Pharmaceuticals e WPP. Nelle isole del canale più famose tra i tax haven cinque anni -tra offshore bank e trust – erano allocati circa 800 miliardi di sterline.
Oggi dopo la forte crisi post Lehman e l’attacco al segreto bancario, gli asset si sono ridotti circa di un terzo. Al momento i migliori clienti delle isole del Canale restano società e privati Ue e del Medioriente. Molti dei quali vivono a Londra e optano per la scelta di non-domicilio fiscale. Nel 2009 sia gli Usa che il Fisco inglese hanno chiuso un particolare accordo di scambio automatico d’informazioni sia con Jersey che con Guernsey. Da allora Londra non l’ha mai applicato se non per procedimenti penali. Perché? Forse perché dei circa 400 miliardi di sterline investiti in banche inglesi dai trust delle isole circa metà sono fuggiti verso Singapore e l’Asia e Londra ha pensato bene di mettere una toppa lasciando gli intenti carta straccia. Perdendo gli altri 200 miliardi che ripercussioni avrebbero avuto Rbs e Lloyds banking Group? Domanda retorica, tanto che è andata a finire in tutt’altro modo la seconda disputa sollevata sempre da George Osborne.
L’altro business che per anni ha fatto felici gli abitanti delle piccole isole è stato la costituzione di trust finalizzati a evitare le tasse di spedizione in Inghilterra e la relativa Iva. Amazon, Tesco e Play.com da soli in una decina di anni hanno spedito Cd, Dvd e altri beni per importi vicini a 500 milioni di sterline bypassando lecitamente Iva e altre tasse Uk. Motivo per cui, secondo l’Alta Corte di Londra, «è da addebitare nell’ultima decade proprio ai piccoli Paesi offshore una perdita di occupazione nel settore pari a circa il 50% degli attivi». E su questo nemmeno il combattivo ministro del Tesoro di Jersey, Philip Ozouf, ha potuto fare nulla. Il sistema per evitare l’Iva è saltato. Inutile ogni tentativo di braccio di ferro. Siamo di fronte a un cambio epocale e tutto è perduto per le piazze offshore? Ovviamente no. Almeno secondo i diretti interessati.
Lo stesso Ozouf, lo scorso anno, rispondendo alla domanda di un reporter sulle prossime mosse del Tesoro inglese ha semplicemente ricordato che «nel 1970 si viaggiava con le borse piene di contanti, ora i nostri prodotti finanziari sono all’avanguardia. E in futuro nessuno ha interesse a cancellare il nostro ruolo, ma solo a ridefinire i reciproci interessi». Nel frattempo la lotta non accenna a diminuire. Inchieste giudiziarie sono in corso in Francia, Australia e Italia. Dove si cerca di contestare a Google, ad esempio, un sistema di esterovestizione. Facendo cadere l’ipotesi elusiva e aprendo quella evasiva (l’Italia è stato il primo Paese a mettere sotto inchiesta eBay). E’ arrivato forse il tempo di chiedere ai Parlamenti di legiferare in fretta su temi così complessi (l’ideale sarebbe un’unica norma Ue sotto ombrello Ocse) e non aspettare che i governi prendano una decisione piuttosto che un’altra solo perché sottoposti alla morsa del debito pubblico. Più in generale però non ci sarà mai trasparenza fiscale senza onestà intellettuale e politica.