Il Governo «di servizio» di Enrico Letta e Angelino Alfano ha compiuto i suoi primi passi concreti di politica economica. Si va dall’Imu, al finanziamento della Cassa Integrazione ai ripensamenti sull’IVA. Ci sono due aspetti fondamentali nell’impostazione della politica scelta dall’esecutivo.
Il primo è una politica economica che, risentendo degli equilibri politici sottostanti, non risponde ad un coerente indirizzo riformatore. Il secondo è una politica economica molto esplicita sul lato degli impegni di spesa e della riduzione di entrate ma molto meno chiara sulle fonti di copertura. L’unica eccezione sta nella copertura della cassa integrazione che, come da prassi, viene finanziata distogliendo Fondi Europei per lo sviluppo economico e politiche attive di sostegno al lavoro.
Consideriamo l’IMU sulla prima casa: se si abolisse si perderebbero circa 4,5 miliardi di euro di gettito. Il consenso tra gli esperti è che più della metà di questo gettito viene dal 30% delle famiglie più ricche e dalle famiglie più anziane. L’IMU è più progressiva dell’ICI e quindi, abolendola, si renderebbe il nostro sistema fiscale meno progressivo. In un’economia che vanta una pressione fiscale più alta di Germania, Francia Spagna e Inghilterra, una riduzione di imposta è una buona notizia. Eppure non c’è alcuna buona ragione economica per cui si cominci dall’IMU. Nel paese con la più alta tassazione sul lavoro tra tutti i partner europei di rilievo, l’IRPEF sembrerebbe il luogo ideale dove cominciare a tagliare le tasse.
Esiste poi un secondo problema di questa impostazione. Ad oggi l’IMU sulla prima casa è sospesa, non abolita. Certo, la promessa finale è che ci sarà l’abolizione, ma la sospensione di una tassa non ha alcun effetto sui consumi se gli individui non sono convinti che la sospensione diventi una abolizione. Fra l’altro, se anche fossero certi dell’abolizione, non è affatto detto che cambino i propri consumi: comprendendo la gravità della crisi e la difficoltà del governo a tagliare la spesa improduttiva, i cittadini possono pensare di risparmiare il taglio della tasse per far fronte all’inevitabile crescita delle tasse future. Questa non è altro che l’ennesimo esempio di un principio noto in economia come equivalenza ricardiana. Il presidente Bush nel 2001 fu il primo a scontrarsi contro questo principio.
Ci sono ottime ragioni per pensare che la riduzione dell’IMU dovrà essere riassorbita attraverso la crescita di altre tasse. Già nel 2013, ad impegni correnti, l’IVA dovrebbe salire al 22%. Non farlo comportrebbe un ammanco di gettito preventivato nell’ordine dei 2 o 3 miliardi, secondo la Cgia di Mestre. Gli italiani, se non cambiamo le cose e aumentiamo l’IVA, si chiederanno non “se” ci saranno altri aumenti di imposizione fiscale ma “quando” avverranno. Il beneficio della riduzione dell’IMU, ammesso e non concesso che avvenga, rischia di venire risucchiato dall’incertezza.
Per convincere gli italiani che la riduzione delle tasse possa essere realtà serve più che una sospensione. Serve un osservabile e concreto cambio di passo nella gestione e riduzione della spesa pubblica. Facciamo allora una proposta diversa al Governo Letta-Alfano: trasformino la loro debolezza – l’eterogeneità – in forza, cioè condivisione delle responsabilità. Anzichè cercare di accontentare tutti gli azionisti di Governo con misure ad hoc, condividano la responsabilità di scontentare qualcuno tagliando la spesa pubblica dove si annidano sprechi e rendite. In questo modo nessun partito politico sarà chiamato a pagare un prezzo in termini di consenso, ma tutti potremo cambiare.
Un punto di partenza per applicare questa impostazione (oltre agli altri di Giavazzi e Alesina) l’abbiamo già segnalato in questo articolo e in questo: è la spesa per gli organi esecutivi, legislativi e affari esteri che, nel 2010, era in Italia di 1% di Pil più alta della Gran Bretagna, dello 0,7% più alta della Germania e dello 0,8% più che in Spagna. Tagliare lo stipendio dei ministri è cosa giusta ma l’1% del Pil, vale 15 miliardi. Altro che IMU sulla prima casa.
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