Volete la pace per la Siria? Separatela come i Balcani

Ormai l'odio è inarrestabile e bisogna creare nuovi confini nazionali

Il problema con Bashar al-Assad, il dittatore siriano, è che neanche in Israele è chiaro se sia meglio se rimanga o se venga deposto. Le informazioni che arrivano da Gerusalemme sono contrastanti: alcuni ritengono che Assad rimanga pur sempre l’uomo di contatto tra l’Iran (e i suoi sponsor russi) e i terroristi di Hezbollah nel Sud del Libano, così se ci si liberasse di Assad – che appartiene alla confessione sciita degli alawiti – la maggioranza sunnita della Siria prenderebbe il potere e il meccanismo di connessione si bloccherebbe. Però così i sunniti potrebbero attraversare l’abituale processo post rivoluzionario di fase costituente, elezioni libere, vittoria di una fazione islamista destrorsa e radicalizzazione del paese – con il corollario di pulizia etnica.

Cosa sarebbe meglio per l’ordine mediorientale: una Siria sunnita o una Siria sciita? Cosa garantirebbe che non esploda un altro conflitto arabo-israeliano? Nei giorni scorsi ho contattato Shlomo Brom, Senior Fellow presso l’”Institute for National security Studies” di Tel Aviv, con alle spalle una lunga carriera nelle forze di difesa israeliane: ha ammesso candidamente che «non c’è accordo nell’establishment militare israeliano su questo punto. In ogni caso, penso che possiamo dimenticare qualsiasi negoziazioni di pace tra Israele e Siria per i prossimi anni», visto che i paesi sono ancora formalmente in guerra dal 1967.

Sembra quindi che l’unica soluzione possibile sia quella che esisteva prima: l’equilibrio. È come in Iraq: Saddam Hussein reggeva il potere mantenendosi in equilibrio tra sunniti e sciiti – anche per questo si appoggiava poco alla religione e si riferiva all’ideologia arabo-socialista del ba’athismo. Anche la regola degli Assad in Siria trae le sue origini dal ba’athismo. Peraltro, Bashar Assad fino a un paio d’anni fa aveva dimostrato di non essere crudele quanto il suo collega di Baghdad. Era più simile allo Scià d’Iran: poteva contare su squadracce pronte a fare il lavoro sporco, ma la sua immagine pubblica era pulita a sufficienza da consentire alla moglie di apparire su Vogue – così come le mogli dello Scià, Soraya Esfandiary e Farah Diba. Per chi non lo sapesse, Saddam aveva due mogli, che hanno sempre avuto il buon gusto di starsene in disparte.

Assad due anni fa sapeva che il suo vero potere consisteva nell’inserirsi tra i giochi etnici della Siria e di tutta la regione. Sapeva quando tirare e rilasciare il guinzaglio di Hezbollah, “filtrando” le pretese degli iraniani a seconda del suo interesse politico. La questione israeliana era sfruttata con buona capacità negoziale: non si cercava lo scontro diretto, ma neanche la pacificazione. Il problema è che questo passato non tornerà più: le fazioni sanno che la vittoria di una parte non comporterà solo la sconfitta di un’altra, ma il suo annientamento. Inoltre, la fine non è in vista: entrambe le fazioni possono godere del sostegno finanziario e militare di forze esterne – i sunniti dell’Occidente, e gli sciiti dell’Iran e della Russia. In casi come questo, lo scontro può durare anche decenni. Ci sono numerosi esempi – come l’Angola, che è passata attraverso 27 anni di scontro civile (1975-2002), essendo incappata in uno scontro che opponeva finanziamenti occidentali ad altri sovietici. Casi simili hanno riguardato la Repubblica Democratica del Congo e il Sudan.

Se un nuovo equilibrio non può essere raggiunto, sembra che l’unica soluzione possibile sia quella di cambiare la tavola dello scontro: spaccare la Siria. Una Siria sciita nel Sud governata dagli Assad eviterebbe la pulizia etnica degli sciiti da parte dei sunniti. Consentirebbe anche ai russi di preservare i propri interessi geostrategici: la connessione con Hezbollah per influenzare il processo di pace palestinese, e l’accesso alle coste siriane mediterranee, con il porto di Tartus che presiede il passaggio delle petroliere russe sui Dardanelli e il nuovo fronte di esplorazione per il gas tra Cipro e Israele. A Nord, la Siria sunnita sarebbe disconnessa geograficamente dalla Giordania – evitando l’effetto domino descritto sopra. Eventualmente, si potrebbe pensare alla creazione di una regione curda, anche se ciò implicherebbe delicate negoziazioni con Iran e Iraq.

Questa soluzione “alla sudanese” farebbe in modo che la Siria non precipiti nell’anarchia. Inoltre, non appena i nuovi confini nazionali corrisponderanno a quelli culturali, non ci sarà più bisogno di un dittatore “super-partes” come Assad, e si aprirebbe qualche spiraglio per una democratizzazione – anche se non si tratta dell’ipotesi più probabile. C’è da attendersi in realtà che la Siria sciita si organizzi sul modello teocratico Iraniano, così come già fatto dagli sciiti di Hezbollah e il loro “stato nello stato” nel Sud del Libano. Il Nord potrebbe replicare l’ideologia dell’AKP di Recep Tayyip Erdogan in Turchia, che già è un modello per la Fratellanza Mussulmana di Morsi in Egitto, con tutte le conseguenze del caso. Queste radicalizzazioni, però, sarebbero di gran lunga preferibili al radicalismo che sarebbe in grado di esprimere una Siria interamente sciita o interamente sunnita.

Si dimentichi quindi una soluzione come quelle adottate con l’Iraq e l’Angola: tra Baghdad e Luanda, gli accordi di pace sono stati basati sulla distribuzione delle rendite petrolifere. La Siria produce poco petrolio, e la pace non si farà comprare dai barili. Separare la Siria è una soluzione radicale, ma non è la peggiore delle soluzioni – in fondo, la maggior parte dei confini mediorientali sono un’invenzione occidentale, ispirata dai distretti amministrativi dell’Impero Ottomano e soprattutto dai tratti di penna sulle cartine, guidati dagli interessi (petroliferi) occidentali. Se un paese mediorientale precipita nel conflitto civile, è perché non rappresenta più l’identità popolare. Forse, nel caso siriano non l’ha mai rappresentata. 

Se si parla spesso di una “balcanizzazione” della Siria il conflitto deve essere risolto come nei Balcani: separandosi. Ci saranno conseguenze sociali terribili per rilocare le popolazioni ed evitare la creazione di enclave culturali, ma è pur sempre una soluzione preferibile allo stesso lavoro compito con il filo delle armi da fazioni in lotta, tra genocidi e stragi. Abbiamo già visto nuove Srebrenica in Siria. Due paesi sono meglio di uno, se questo è ciò che la gente vuole.

*autore di “Gaza 2012: La Battaglia d’Israele” (goWare)

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