IotaAnche la Croazia propone referendum sui matrimoni gay

Il movimento “Nel nome della famiglia” ha raccolto 500mila firme

In poco tempo hanno già raccolto 500mila firme, su una popolazione di circa quattro milioni di abitanti: cinquantamila in più di quelle richieste per legge in Croazia per indire un referendum popolare. Sono gli attivisti di u ime obitelji (“Nel nome della famiglia”). Si battono per evitare «di fare la stessa fine della Francia», e scansare definitivamente la possibilità che le coppie omosessuali possano sposarsi. Per riuscirci hanno chiesto un referendum. Affinché in Costituzione compaia la definizione di matrimonio come di «un legame tra uomo e donna» contratto «per tutta la vita».

«Donna + uomo = matrimonio», è lo slogan che campeggia sul sito dell’organizzazione. Che pare vicinissima a realizzare il proprio obiettivo. Se ci sarà il via libera da parte della Corte costituzionale, il Paese si recherà alle urne per il terzo referendum della propria storia, dopo quello sull’indipendenza e quello dell’anno scorso, con il quale l’elettorato era stato chiamato a esprimersi sull’integrazione europea.

È la stessa legge fondamentale croata a stabilire il proprio emendamento attraverso il voto favorevole di due terzi del Parlamento oppure attraverso la consultazione popolare. Una disposizione per molti versi estrema, retaggio del voto con cui, nel 1991, Zagabria dichiarava la propria secessione dalla Jugoslavia. E che, oggi, permette alle frange più conservatrici dell’opinione pubblica croata di prevalere sulla volontà politica del centrosinistra guidato dal premier Milanovi.
 

La battaglia per i diritti civili

Nell’attesa del nulla osta della Corte costituzionale, “Nel nome della famiglia” si felicita per il risultato ottenuto. Per alcuni versi quello che sta accadendo è paradossale: i Balcani non sono mai stati una regione nota per la tolleranza nei confronti della comunità LGBT; ciononostante, la Croazia era stata indicata come ‘campione’ dell’area, in un rapporto pubblicato dall’ILGA Europa in occasione della giornata mondiale contro l’omofobia e la transofobia, lo scorso 17 maggio.

Rispetto a paesi come la Serbia, la Bosnia Erzegovina o la Macedonia, Zagabria sembrava concedere più libertà alle coppie non eterosessuali: a esse, come del resto alle coppie di fatto, veniva riconosciuta una limitatissima categoria di diritti civili, sufficienti però a marcare una certa differenza tra la Croazia e i suoi vicini.

Restavano, e restano tuttora sulla carta alcune questioni di primaria importanza, come il diritto all’adozione, riconosciuto per esempio a singoli individui, ma non alle coppie omosessuali. O come il diritto a ottenere la modifica dei propri dati anagrafici per chi sceglie di cambiare sesso, in questo momento impossibile.

Negli ultimi mesi la questione era ritornata prepotentemente di attualità. In un governo di centrosinistra molti esponenti politici avevano espresso la loro solidarietà e la loro dedizione alla causa. La Croazia ha assistito persino al primo ‘impensabile’ coming out di uno dei suoi politici, Damir Hršak, del Partito del lavoro croato. Lo stesso Milanovi un anno fa aveva promesso di introdurre nuove leggi, alimentando la speranza che Zagabria potesse approvare le unioni omosessuali.
 

La “operazione Oluja” dei conservatori

Ma il tema non è mai stato davvero all’ordine del giorno. E nel frattempo la maggioranza socialdemocratica ha perduto consenso. Il Paese è fiaccato dalla crisi e sempre più persone si dicono scettiche o apertamente contrarie all’ingresso ormai prossimo nell’Unione Europea. Al governo, gravato dagli ultimi preparativi in vista dell’adesione, è mancata la volontà politica di fare proprie le priorità della comunità LGBT.

Nel frattempo, la destra croata è riuscita a rinascere attorno al proprio partito storico, la HDZ, che ha dimostrato di essere in crescita in entrambi gli ultimi confronti elettorali (le elezioni europee e quelle amministrative, che hanno avuto luogo solo due settimane fa). I conservatori hanno sfruttato la risonanza di importanti eventi simbolici come la liberazione dei generali Gotovina e Marka, o la mobilitazione contro l’introduzione dell’alfabeto cirillico a Vukovar, città che venne distrutta dai Serbi durante la guerra.

Grazie a questa vetrina il progetto politico della destra si è rinvigorito. E a ciò si è aggiunto anche l’appoggio determinante della Chiesa, onnipresente in Croazia e vero collante identitario di una nazione in cui l’85% dei cittadini si dichiara cattolico. Nel corso del 2013, quindi, l’opinione pubblica più conservatrice è tornata in una posizione dominante in Croazia. E ha vinto una prima battaglia molto importante, contro l’introduzione dell’educazione sessuale nelle scuole: tre ore di lezione all’anno che secondo il Vaticano avrebbero inevitabilmente spalancato le porte «agli anticoncezionali, all’autoerotismo e all’omosessualità», presentata per la prima volta come una condizione naturale e non patologica. La scorsa settimana la giustizia croata ha stabilito l’illegalità di impartire insegnamenti di questo tipo senza prima avere ottenuto il consenso da parte dei genitori.

Contro l’educazione sessuale erano persino comparsi dei manifesti, a firma del quotidiano Nacija (“Nazione”), con la scritta: «Jovanovi (il ministro dell’Educazione, ndr), nel nome di Cristo, lascia in pace i nostri bambini!». La Chiesa, attraverso le parole del cardinale di Zagabria Valentin Pozai, non aveva esitato a fare appello ai propri fedeli affinché combattessero «una nuova Oluja» – con esplicito riferimento alla controversa operazione che permise di riconquistare la Krajina nell’estate del 1995. «Il nazismo», ammoniva Pozai, «è giunto al potere con elezioni democratiche e ha successivamente abusato della legittimità del proprio mandato, imponendo la dittatura. È proprio necessario continuare a sottolineare le somiglianze con i comunisti di oggi in Croazia?».

Come andrà a finire? La mobilitazione della destra e dei cattolici croati finora ha funzionato. E il referendum sul “matrimonio costituzionale” potrebbe rappresentarne la vittoria decisiva. Secondo la legge, non vi sono ostacoli formali alla sua realizzazione. Il solo dubbio è “di merito”, e su di esso dovrà esprimersi la Corte costituzionale: ovvero se sia ammissibile la consultazione popolare nel caso di diritti umani fondamentali.

In più persone hanno infatti condannato un referendum che sarebbe fortemente discriminatorio. «Cosa dovremmo fare», si chiedeva retoricamente Pedja Grbin, un esponente del partito socialdemocratico, «nel caso in cui si cominciassero a raccogliere le firme per rendere illegittimo il matrimonio tra Croati e Serbi?».

«La volontà della maggioranza», si leggeva in un editoriale pubblicato su 24sata (il quotidiano più letto del Paese), «evolve facilmente in varie forme di repressione dei diritti delle minoranze». «In questo caso», sottolineava l’autore, Tomislav Klauski, «l’estensione di certi diritti a una minoranza non ostacola quelli della maggioranza». I promotori del referendum «starebbero ingannando i Croati: pongono il quesito in modo che la risposta sia un ‘sì’ pronunciato a sostegno del matrimonio tradizionale. Ma in realtà questi cittadini non stanno difendendo i propri diritti, che non sono messi in discussione. Quello che fanno, piuttosto, è eliminare quelli delle minoranze. Di questo non se ne rendono conto: andranno a votare con la coscienza politica e poi se ne laveranno le mani». 

Twitter: @RodolfoToe

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