Aspettando il Godot della crescita, è sempre recessione

Alto debito, recessione e credit crunch

Tutto peggio del copione. La recessione italiana si conferma più severa delle previsioni. Nel primo trimestre dell’anno in corso il Prodotto interno lordo (Pil) italiano si è contratto dello 0,6% su base congiunturale e del 2,4% su base tendenziale, come ha certificato Istat. Numeri che, nel caso della variazione trimestrale, rappresentano il settimo calo consecutivo. Numeri che però non erano attesi. Sono lontani i tempi della montiana “luce in fondo al tunnel”. Sono vicini i tempi di un altro anno in recessione. Colpa, almeno secondo diverse banche d’investimento, di una erronea interpretazione dell’austerity da parte del governo guidato da Mario Monti.

La sofferenza continua. Sarà anche passata l’emergenza finanziaria, ma non quella economica. L’Italia continua a faticare. E lo scenario più plausibile per i prossimi anni, a meno di miracoli, è desolante: alto debito pubblico, stagnazione economica e gap strutturali che limitano le potenzialità del Paese. Se poi a questo si aggiunge il maggior calo su base congiunturale dal primo trimestre del 2009, meno 1,9%, il quadro si complica ancora. Per fortuna che, grazie alla Banca centrale europea (Bce), l’Italia è tornata in una situazione tutto sommato di serenità sui mercati obbligazionari. Così non è per un ingranaggio particolare per ogni singola economia: l’accesso al credito. Le imprese italiane, come quelle iberiche, soffrono per un credit crunch sempre più pesante, oltre che per una tassazione in incremento e una burocrazia che definire bizantina è dire poco.

La variazione acquisita del Pil per il 2013 è per ora di meno 1,6 punti percentuali. Pertanto la stima finale è di un calo del 2,4 per cento. E dire che nel luglio 2012 fu proprio l’allora premier Mario Monti a spiegare che si poteva vedere una luce in fondo al tunnel. Invece, complice una politica economica sulla carta fatta di consolidamento fiscale, e quindi di revisione della spesa pubblica, ma in realtà fatta di aumenti delle imposte, sia dirette sia indirette, il suo governo ha contribuito a peggiorare il Pil italiano. Lo dice senza troppi giri di parole la banca francese Société Générale: «L’introduzione delle nuove imposte da parte del governo Monti ha influenzato negativamente il Pil del Paese, ma il vero impatto lo si conoscerà solo a fine anno». Opinione condivisa anche da J.P. Morgan, HSBC e il fondo BlackRock. Lo confermano i dati, peggiori delle previsioni. 

Nell’aprile 2012 il Documento di economia e finanza (Def) del governo era ottimista. Forse troppo. La contrazione del Pil nel 2012 doveva essere di 1,2 punti percentuali. Nel 2013 la ripresa, tiepida ma presente: più 0,5 per cento. A distanza di pochi mesi, a settembre, l’aggiornamento del quadro macroeconomico previsto da Palazzo Chigi. Un’ecatombe. La flessione del Pil 2012 era ora data a meno 2,4%, con una stagnazione, meno 0,2%, anche per l’anno successivo. Nonostante questo Monti e il suo braccio destro all’Economia, Vittorio Grilli, si dissero tranquilli. Il primo a parlare fu Monti: «Non c’è una revisione del programma di politica economica del governo, ma un aggiornamento del quadro macro economico». L’arte della minimizzazione colpì anche l’ex commissario per la concorrenza dell’Unione europea. «Rispetto ad aprile, il quadro è migliorato per le decisioni europee e della Bce ma l’andamento economico non è migliorato, anzi. È peggiorato a livello europeo sia per l’economia reale che per le dinamiche dei tassi rimasti elevati», disse il premier. Parole che oggi fanno sorridere. Monti e Grilli si spinsero però oltre. Il presidente del Consiglio disse infatti che l’imperativo doveva essere l’ottimismo. «L’anno prossimo sarà un anno in ripresa per l’andamento dell’attività economica, il 2013 sarà crescente», assicurò Monti. Certo, c’erano alcuni distinzioni, disse. Una di queste è che «la media del Pil 2013 è tuttavia prevista essere di uno 0,2% inferiore alla media 2012. Questo è chiamato effetto trascinamento», affermò Monti. Sebbene in un quadro difficile, il professore non usò metafore per descrivere lo scenario 2013: «La luce della ripresa, anche se non voglio riprendere immagini abusate, si vede». L’evoluzione del Pil ha però preso un’altra piega, rendendo quasi imbarazzanti le dichiarazioni del precedente governo. Non è un caso che nel Def 2013 si parli di contrazione del 2,4% per il 2012 e dell’1,3% nell’anno in corso

Ancora più drammatico è l’abbaglio che invece il governo ha preso in tema di debito pubblico. Secondo il Def di aprile 2012 la dinamica dell’indebitamento italiano, al lordo dei sostegni per i bailout dell’eurozona, era positiva. Dopo un picco del 123,4% del Pil nel corso del 2012, il calo, netto e duraturo. L’obiettivo del governo Monti era quello di portare il debito pubblico al 114,4% del Pil nel 2015. Poi, la correzione a settembre. L’aggiornamento del Def a legislazione vigente fatta a settembre 2012 vedeva un debito pubblico, sempre al lordo dei sostegni, al 126,4% del Pil nel 2012, con un picco al 127,1% nel 2013 e una leggera flessione nel 2015, quando era dato al 122,9% del Pil. Sia Fondo monetario internazionale (Fmi) sia Commissione europea sia Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo internazionale (Ocse) hanno rivisto al rialzo le stime sul debito pubblico, che supererà di slancio il 130% del Pil. 

A scavare fra le ragioni di questa débâcle ci hanno pensato diversi soggetti finanziari. Per UBS il Pil italiano inizierà forse a crescere nella seconda metà del 2014. Se c’erano delle misure in grado di liberare il potenziale di crescita dell’economia italiana, queste non sono state applicate in pieno dal governo Monti, dice la banca elvetica. E sarà ancora più difficile che possano essere adottate dall’attuale esecutivo guidato da Enrico Letta, ostaggio della strana alleanza fra Pd e Pdl. 

Da tecnico doveva rimettere a posto i conti dell’Italia nel momento in cui gran parte degli investitori iniziavano ad avere seri dubbi sulla sostenibilità del debito pubblico del Paese. Ma nel momento in cui Monti è diventato un politico di professione, forse subito dopo l’introduzione della riforma delle pensioni, ha iniziato a fare ciò che fanno tutti i politici: omettere. Le omissioni in merito alla situazione dell’economia italiana, peggiorata in parte dal clima congiunturale, forse rimarranno il peggiore lascito possibile di un governo che ha certamente ridato credibilità a un Paese, pagando però un prezzo grandissimo. Messi a posto i conti, e ritrovato un equilibrio sui mercati obbligazionari, l’obiettivo doveva essere quello di liberare i mercati italiani ancora in catene. Obiettivo fallito. E non devono stupire i bassi tassi d’interesse dei titoli di Stato italiani. Il merito è della droga verbale della Bce, ma anche anche della droga monetaria di Federal Reserve, Bank of England e Bank of Japan. «Guardando l’Italia in un orizzonte temporale quinquennale è difficile immaginare un miglioramento della capacità produttiva, un abbassamento del costo del lavoro e in generale l’introduzione delle riforme strutturali in grado di aumentare la competitività del Paese», ha detto la banca nipponica Mitsubishi una settimana fa. Parole ben più significative delle minacce di Beppe Grillo sul referendum sull’euro. 

Eppure, secondo l’Ocse c’è un motivo per essere ottimisti. Secondo il Composite leading index, un indice che anticipa le tendenze macroeconomiche future, l’Italia ha buone possibilità di uscire dalla recessione in massimo nove mesi. Secondo l’istituzione parigina, infatti, il Cli relativo all’Italia ha toccato quota 99,94 punti, il massimo dall’agosto 2012. Un segnale positivo, ma dato il lungo orizzonte temporale nel quale deve essere proiettato, non sufficiente a far abbassare la guardia. Né tantomeno far gridare al miracolo.  

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