Bank of England, la vecchia signora sempre più incerta

Le sfide della Banca d’Inghilterra

Nella City qualcuno già mugugna. «Senza di lui non sarà più come prima», si dice. Lui è Sir Mervyn King, numero uno della Bank of England che il prossimo giovedì parteciperà alla sua ultima riunione come governatore della Old Lady di Threadneedle Street. Poi, passerà il testimone a Mark Carney, il banchiere canadese che ha guidato dal Bank of Canada e il Financial stability board. «Carney potrà anche essere il migliore del mondo nel suo lavoro ma resta uno straniero, che si spera non rompa troppi equilibri», osserva in modo maligno qualche finanziere londinese. La sfida, infatti, è grande. Di fronte a un mondo in cui gli squilibri non sono stati attenuati e i rischi sono solo trasferiti, Carney avrà due vie davanti a sé: aprire la BoE o chiuderla ancora di più.

Nell’agosto 2007, nel momento in cui l’universo finanziario comprese a pieno quanto fosse profondo l’abisso provocato dai mutui subprime, partì una chiamata di fuoco da Threadneedle Street. Direzione? L’ufficio di Ben Bernanke, numero uno della Federal Reserve. Chi era presente racconta che per la prima volta King perse le staffe in maniera roboante. Dopo anni di moniti sulla fragilità del mercato immobiliare statunitense, restati del tutto inascoltati, King era visto come un buon banchiere, ma forse un po’ troppo cinico, disilluso e impulsivo. Eppure, si era accorto prima di altri di ciò che stava succedendo. E non fu la prima volta.

Fra 2011 e 2012, quando l’eurozona ha vissuto i giorni più neri, King non ha aspettato molto a chiamare a raccolta i banchieri della City. E in una riunione di fine 2011 disse loro che dovevano prepararsi al peggio: il collasso dell’euro. E proprio per questo, King chiese di redigere un’analisi sui possibili scenari di un euro break-up. Non solo, contattò anche la Financial services authority (Fsa) per comprendere in che modo ci sarebbero stati impatti sul sistema finanziario britannico. «I piani furono incredibilmente dettagliati e forieri di intuizioni utili a comprendere la profondità della crisi dell’eurozona», dice a Linkiesta un economista di Société Générale. E ricevere un complimento dai francesi, francamente, non è usuale se si lavora alla BoE.

King sarà ricordato per tre fattori: il suo tempismo nell’abbassare il tasso d’interesse della BoE, la sua aggressività nel lanciare il Quantitative easing, il suo interventismo nei bailout bancari. Se sui primi due punti è facile capire le ragioni e la lungimiranza – per ragioni storiche i britannici sono fra i migliori banchieri al mondo, insieme ai fiorentini e i lombardi – è meno comprensibile la girandola di interventi a sostegno delle banche. Forse tutto si può ricondurre a quel maledetto settembre 2007, quando il Regno Unito sperimentò ancora una volta la paura del bank run, la corsa agli sportelli. Erano i giorni di Northern Rock, uno dei principali lender del Paese. Le code di fronte ai bancomat e alle filiali dell’istituto di credito rimasero impresse negli occhi di King. Dopo, niente fu più come prima. «Siamo di fronte a una crisi di livello straordinario. Servono pertanto misure straordinarie. Meglio nazionalizzare e ripulire le banche del Paese dagli eccessi che banchieri avidi e senza scrupoli hanno creato. Il mercato, di fronte a questi squilibri e a tutti i rischi assunti senza alcuna consapevolezza, può fare poco. Occorre agire e occorre farlo adesso», disse King. Era il preludio all’entrata del Regno Unito nel capitale di Royal Bank of Scotland, tramite l’Asset protection scheme, da cui il colosso bancario britannico è uscito da poco. Ma era il preludio anche agli interventi sui Lloyd’s, forse la più autorevole istituzione finanziaria del Regno Unito. Per i Lloyd’s subire l’onta di un intervento statale, nella patria di Adam Smith, fu qualcosa di inaudito. «È il turning point del moderno capitalismo», disse Alastair Darling, cancelliere dello Scacchiere in carica l’8 ottobre 2008, quando venne lanciato il piano di salvataggio del sistema bancario britannico da 500 miliardi di sterline, circa 850 miliardi di dollari. A questi hanno fatto seguito circa 1.000 miliardi di sterline erogati dalla BoE dal 2007 a oggi, tramite il Qe.

La creazione del Bank of England’s Special Liquidity Scheme, un canale di liquidità straordinaria, fu un’idea di King. Dicono i bene informati che non avrebbe tollerato l’onta di vedere nuovamente banchieri americani rovinare il loro dei britannici. Dietro e questa credenza, ci sono ragioni storiche. Come King, la maggior parte dei banker della City sono convinti di una cosa: la propensione estrema al rischio e alla massimizzazione del profitto senza curarsi dell’etica, ovvero due fra le cause della deviazione perversa della finanza globale, è colpa degli yankee. Meyer Amschel Rothschild, fondatore dell’omonima casa d’affari, disse che «Londra vive per la finanza e la finanza vive per Londra». Gli americani c’entravano poco. «Sono dei razziatori, voglio tutto e lo vogliono subito», disse King nel 2001, ancora prima di diventare governatore della BoE. Secondo diversi esponenti della gilda dei banchieri internazionali della City, la Worshipful Company of International Bankers, gli americani hanno introdotto modi sempre più estremi e più esasperati di fare finanza. «Hanno solo interesse a fare più soldi. E non si curano delle strette di mano, che per un londinese sono ancora vincolanti», dice a Linkiesta un membro della gilda. King ha voluto combattere questa contaminazione, chiudendo lentamente la Bank of England alle influenze esterne e cercando di ripulire l’universo finanziario londinese. C’è riuscito? Forse sì.

Il problema è capire se sia questo il compito di una banca centrale. Se da un lato deve controllare la creazione di moneta, dall’altro deve ancora tenere gli occhi aperti sugli squilibri economico-finanziari. È per questa ragione che King ha rivoluzionato il modus operandi della Bank of England, attivando speciali commissioni d’indagine sulla crisi finanziaria e sulle sue causa, chiedendo ai suoi funzionari di monitorare accuratamente ogni singolo movimento del sistema finanziario britannico. «Dobbiamo imparare dai nostri sbagli, e sono stati tanti», disse King a fine 2011.

Mark Carney ha due possibilità. Continuare con l’opera di King, ovvero un lento ma inequivocabile isolamento rispetto all’eurozona, oppure rompere con il percorso intrapreso e aprire la BoE a un universo finanziario che ha bisogno di essere riformato. «Non si vive di protezionismo e allarmi», scrisse Martin Wolf commentando la nomina di Carney alla BoE. Il messaggio era chiaro: la Old Lady deve collaborare di più con le altre banche centrali e portare il suo expertise al servizio del resto del mondo. Un esempio? Invece che attaccare la Banca centrale europea (Bce) per la sua natura dogmatica, dovrebbe aiutarla ancora di più nella supervisione macroprudenziale.

Il problema è che il Regno Unito era ed è un mondo a parte. «È come se fosse un enclave all’interno dell’Europa, una sorta di Stato sovrano guidato dai banchieri», disse Dirk Schumacher, economista di Goldman Sachs. Non aveva tutti i torti. Quando iniziò la ricerca per il successore di King, la City of London Corporation, ovvero l’organismo di amministrazione della City, non usò giri di parole per fare le sue richieste. «Desideriamo un governatore che sia meno pregiudizievole nei confronti dei banchieri, altrimenti diverse società potrebbero andarsene all’estero. A Singapore o a Hong Kong, per esempio», disse la Corporation. Carney è forse la scelta migliore per accontentare questa domanda.

Il banchiere canadese è più tecnico e meno politico di King. Un elemento, quest’ultimo, che non deve essere sottovaluto quando di parla della Bank of England. È facile che Carney punti molto sulla sorveglianza finanziaria, il suo pallino da quando entrò alla Bank of Canada. Non è un caso che uno dei primi a chiamare Carney sia stato Andy Haldane, ovvero l’uomo che a Threadneedle Street si occupa della divisione relativa alla stabilità finanziaria.

Il regalo che King ha fatto a Carney prima di andarsene è arrivato pochi giorni fa. La BoE ha infatti reso noto che, dopo gli ultimi stress test, le banche britanniche hanno bisogno di nuovi capitali per circa 27 miliardi di sterline. Dopo le nazionalizzazioni, e dopo un Qe che dura ormai dal settembre 2009, è giunta l’ora di decidere se continuare su questa strada o fare dei mutamenti. Ci sono due evidenze: la liquidità, mai stata così elevata e mai così mal distribuita, e i rischi finanziari assunti dagli istituti di credito, in aumento rispetto al 2007. Come ha scritto la stessa Bank of England nel dicembre 2012, «è palese l’aumento di due possibili minacce per la stabilità finanziaria globale, ovvero l’incremento del leverage bancario a partire dalla seconda metà del 2011 e il trasferimento dei rischi, non la sua mitigazione». Due minacce che però cozzano contro le raccomandazioni della Prudential Regulatory Authority, la divisione della BoE che supervisiona banche e istituzioni finanziarie al posto della Financial Services Authority.

Secondo la Pra, che ha condotto gli esercizi di stress sulle banche britanniche, ha consigliato l’introduzione di un common equity Tier 1 leverage ratio del 3% del capitale complessivo. Traduzione: il coefficiente di leva finanziaria non deve superare il common equity Tier 1. Quest’ultimo è costituito, secondo gli standard di Basilea III, dalla somma algebrica di: azioni ordinarie emesse dalla banca (o strumenti con valore analogo), sovrapprezzo delle azioni derivante dall’emissione di strumenti ricompresi nel common equity Tier 1, riserve di utili, riserve da valutazione e altre riserve, azioni ordinarie emesse da filiazioni consolidate della banca e detenute da soggetti terzi, aggiustamenti regolamentari applicati nel calcolo del coefficiente totale. Un obiettivo forse troppo ambizioso per le banche britanniche, avvisa Fitch. Lo stress è ancora elevato e le operazioni di pulizia di King devono essere continuate da Carney, ha detto l’agenzia di rating. Un compito non facile.

Come se non bastasse, Carney ha di fronte l’immenso universo della finanza over the counter, ovvero non regolamentata. Anche questa fa parte dello shadow banking, il cui valore ha superato i picchi del 2007. Come presidente del Financial stability board, Carney ha analizzato a fondo i flussi di capitale che hanno lasciato le mete finanziarie tradizionali, oggetto di una regolamentazione finanziaria più spinta dalle esigenze politiche piuttosto che da logiche interne di riduzione dei rischi, fra il 2007 e il 2012. Il suo compito sarà quello di ridurre gli squilibri? Probabilmente sì, ma per farlo ci sono due strade: chiudere il sistema o scendere a compromessi con il resto del mondo. E non è detto che la Bank of England sia disposta alla seconda opzione.

Dopo un banchiere senza peli sulla lingua come King, la Old Lady forse non è pronta per Carney. Tutto dipenderà dal canadese, considerato negli ambienti finanziari il miglior banchiere centrale del mondo insieme a Mario Draghi. Con un’economia zigzagante e con una finanza che ha ricominciato a giocare con gli eccessi, Carney non avrà vita facile. Coraggio, creatività e lungimiranza dovranno essere le sue armi. Altrimenti la Old Lady di Threadneedle Street potrebbe chiudersi ancora di più. Qualcuno lo chiamerebbe protezionismo finanziario, ma forse sarebbe solo spirito di autoconservazione.  

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